The dark side of the moon

Cain & Altayr | Ta Nulli

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    6 NOVEMBRE
    Era davvero una notte niente male: freddina il giusto, bisognava ammetterlo, ma cosa si poteva pretendere ad inizio novembre? Il cielo era comunque trapunto di stelle, sereno, e la luna, che quella notte era calante, brillava argentea illuminando la città di Ta Nulli, dove Altayr si trovava in quel momento per motivi lavorativi.
    La cacciatrice aveva saputo della missione che la attendeva solamente la sera prima, e ancora non aveva informazioni precise al riguardo come era solita ricevere. Doveva rubare qualcosa, ottenere informazioni, uccidere qualcuno? Non lo sapeva, e ciò la irritava non poco. Era stata costretta a portare in viaggio con sé molti strumenti, e lo zainetto in cui li aveva riposti molto probabilmente le avrebbero ostacolato i movimenti. Come da contratto, si era completamente vestita di nero, coprendo la parte inferiore del viso lasciando scoperti gli occhi e legando i capelli in una coda alta: girovagando per le strade di Ta Nulli, era un'ombra silenziosa e attenta, alla ricerca del luogo d'incontro con la persona che l'aveva ingaggiata. Una delle poche informazioni che aveva a proposito era il luogo: Ta Nulli, e si sarebbero dovuti incontrare in un vicolo abbastanza angusto e lo avrebbe aspettato dietro ad un locale - abbastanza malfamato da quel che sapeva, ma almeno era poco affollato; la seconda era che non sarebbe stata sola, ma non si era soffermata molto su questo dettaglio sul momento. Ta Nulli era una città ben poco sicura, tutti gli abitanti di Andellen ne erano a conoscenza: i malviventi sbucavano da ogni dove e i furti erano all'ordine del giorno. Pensandoci, aveva svolto non pochi incarichi in quell'area e aveva ucciso altrettante persone. In tutte le missioni che aveva portato a termine in quella città aveva dovuto porre fino alla vita di qualcuno, e conoscendo la zona non c'era da stupirsi: era diventato ormai un rifugio per ladruncoli di poco conto e assassini professionisti, mercenari e cacciatori di taglie solitari. Capi famiglie l'avevano incaricata di uccidere i propri rivali, ragazzi avevano chiesto vendetta, si era intrufolata in tantissime case per rubare e tagliare gole: queste erano le classiche richieste degli abitanti di Ta Nulli, e si sarebbe certo sorpresa se quella notte le avrebbero chiesto di fare tutt'altro.
    Altayr camminava a testa alta, guardando la luna e l'ombra che proiettava sull'asfalto: altro che aquila, in quel momento le sembrava di essere un gatto sinuoso e solitario. Era passato non poco tempo dalla sua ultima missione, almeno tre mesi, ma aveva sempre la stessa adrenalina che le pervadeva il corpo. In qualche modo sentiva di essere nata per fare questo e nient'altro, per combattere e per uccidere nell'ombra. Era contemporaneamente sole e luna, luce e buio, bene e male. Lei stessa riusciva a stupirsi di come una ragazza come lei, solare e spigliata, riuscisse a portare avanti una doppia vita da cacciatrice di taglie, ma ce la faceva e questo bastava.
    Girato l'angolo, si infilò in un vicolo stretto e sporco, e alla fine di esso si intravedeva l'insegna, che un tempo avrebbe dovuto essere luminosa, che lampeggiava in modo molto poco convincente del locale designato come luogo dell'incontro. Non si riusciva a leggere neanche ciò che vi era scritto, a parte forse alcune lettere senza alcun nesso logico. L'insegna - se si poteva definir tale - era proprio sopra una porticina rossa incastonata in un edificio di mattoni grigi con vari graffiti. La luce che illuminava l'ingresso era un po' barcollante, e non volava neanche una mosca: il locale sembrava semi-vuoto. Altayr lo raggirò, appoggiandosi poi al muro, in un punto buio vicino alla porta di servizio: nessuno avrebbe dovuto notarla se non il "datore di lavoro".
    Le avevano riferito che quella sarebbe stata una missione di coppia, ossia avrebbe avuto un compagno con il quale avrebbe svolto l'incarico. Chissà che tipo o tipa sarebbe potuto essere, era piuttosto curiosa di scoprirlo. Non aveva alcun tipo di preferenze, nella sua breve carriera era riuscita a collaborare con i tizi e le personalità più disparate. Decise dunque di ingannare l'attesa ammirando la luna e provando a riconoscere qualche costellazione, lasciando la mente libera da qualsiasi altro problema e pensiero.

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    Non sapeva molto, Cain, di questa nuova missione. Il datore era stato chiaro, ma al contempo misterioso; aveva tenuto per sé numerosi dettagli importanti, sostenendo che li avrebbe esposti solo quando entrambi i sicari si sarebbero presentati al suo cospetto. Cain trovava che comportamenti simili fossero piuttosto sospetti, ma sapendo di non avere a che fare proprio con un sant'uomo, non ebbe troppo da ridire, almeno non su questo. Fu infatti un altra cosa a disturbarlo particolarmente: il fatto di dover, forzatamente, lavorare in coppia, a stretto contatto con un altra persona. Il solo pensarci, quando gli venne accennato la prima volta, lo fece rabbrividire. Cain non ammetteva gente attorno a sé durante le proprie missioni, e per un compito del genere, ad un prezzo così basso per giunta, non avrebbe fatto eccezioni. Il datore però, dopo una buona mezz'ora di trattativa, riuscì a convincerlo, proponendogli un pagamento decisamente più soddisfacente rispetto a quello iniziale.
    Fu così che il mercenario color cobalto si ritrovò, in piena notte, a passeggiare nei vicoli più malfamati di Ta Nulli. Il suono dei suoi passi pesanti echeggiava tra le mura dei vicoli, accompagnato dal tintinnio metallico delle diverse armature e cinghie che portava sul corpo. Ragnell ondeggiava placida al suo fianco, emettendo tenui bagliori.
    La marcia del mercenario si arrestò alla vista di una strada illuminata. Uscito dal vicolo buio si osservò attorno, facendo mente locale con le informazioni che gli erano state rivelate. Secondo le direttive avrebbe dovuto incontrarsi con il datore davanti alla porta di servizio di un pub malfamato, che si trovava, se non ricordava male, in fondo ad un vicolo ceco. Lanciò uno sguardo clinico ai dintorno per poi ripartire a grandi falcate, la mano destra posta sul pomo della spada, in allerta.
    Voltò l'angolo, infilandosi in un vicolo stretto dove, in fondo, riluceva un led malandato. La sua luce andava e veniva a intervalli irregolari, illuminando una figura esile e scura che se ne stava lì, appoggiata al muro.
    Cain s'irrigidì, scattando sulla difensiva. Rallentò il passo, la mano stretta convulsamente attorno all'elsa della propria arma. Aggrottò le sopracciglia, riducendo gli occhi a due fessure per cercare di distinguere i lineamenti dell'ombra. Un barlume verde prodotto dall'insegna, decisamente più potente dei precedenti, gli permise di distinguere un paio di grandi occhioni con lunghe ciglia. Non distinse bene il colore, ma intuì fosse chiaro.
    Il mercenario si meravigliò non poco quando, distante ormai pochi metri, i suoi occhi riuscirono a delineare un corpo sinuoso, con curve appena accennate ma piacevoli. Poco ma sicuro, quella persona doveva essere una donna. Mentre gli occhi color cobalto di Cain la scrutavano dall'alto verso il basso, con l'aria di uno a cui la sorpresa non è particolarmente piaciuta, una fiamma avvampò all'interno del suo petto.
    Sperò seriamente che quella bambina non fosse il suo "presunto" compagno.
    « Se stai cercando l'asilo lo trovi per di là. », esordì glaciale, muovendo appena il capo alla sua destra quasi a voler indicare la direzione. Le scoccò un'occhiata irritata che lanciava coltelli, del tipo: Piacere, cara collega!
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    La costellazione dell'Orsa Maggiore si vedeva davvero bene, anche ad occhio nudo. In quell'area, le luci artificiali erano abbastanza deboli e le stelle si riconoscevano senza grandi problemi. Probabilmente era anche Altayr che sapeva il nome e la posizione della maggior parte di esse: i suoi occhi fluttuavano da un corpo celeste all'altro, collegandoli tra loro e ripetendo tra sé e sé il nome di ognuno di loro.
    "Merak, Dubhe, più in alto Megrez, Alioth..." era come una di quelle poesie che ti fanno imparare a scuola, te la inculcano in testa e anche a distanza di qualche anno te le ricordi ancora. Altayr comunque nessuno l'aveva costretta a impararsi congiunzioni, nomi di astri e stelle, costellazioni, segni zodiacali ed altro: era una sua grandissima passione, ed ogni volta che alzava gli occhi al cielo si sentiva subito meglio.
    Come in quel momento: una notte tranquilla e - stranamente, per essere Ta Nulli - silenziosa... o almeno fino a quando un rumore metallico accompagnato da passi pesanti non la mise subito sull'attenti. Distolse lo sguardo dalle stelle per dirigerlo alla sua destra, da dove, dopo aver imboccato una stretta curva, si poteva accedere al vicolo davanti al locale. Il rumore si faceva sempre più vicino, e non sentì la porta d'ingresso del bar aprirsi: questo voleva dire che qualcuno stava venendo verso di lei, e l'identità dell'individuo che si stava avvicinando si restringeva al datore di lavoro e al suo compagno di missione.
    A girare l'angolo fu una figura alta, molto alta, ad occhio e croce la superava minimo una quindicina di centimetri, molto probabilmente anche di più e dedusse fosse un uomo, vista la la corporatura robusta. L'insegna del locale illuminava a malapena l'ambiente intorno, e non riuscì a distinguere i tratti del suo volto molto chiaramente, se non i capelli, disordinati e scuri. Al contrario suo, non sembrava indossare nulla per non farsi riconoscere, maschera o tuta che sia. Al suo fianco brillava un oggetto grande e metallico, molto probabilmente un'arma. Altayr non si scompose, ma tenne i muscoli in leggera tensione, la mano destra pronta ad afferrare il pugnale, attaccato al fianco, in caso di necessità. Lo guardò, tentando di capire le sue intenzioni: inizialmente, anche lui si era irrigidito, ma non sembrava volerla attaccare, sembrava più che altro non si aspettasse di trovare qualcun'altro da quelle parti.
    Si decise ad ignorarlo, sistemandosi la maschera che le copriva metà viso. Strabuzzò gli occhi quando dalla bocca del tizio uscì un « Se stai cercando l'asilo lo trovi per di là. » carico di veleno, e lentamente si voltò verso di lui, le sopracciglia corrugate e le labbra serrate. Come diavolo si permetteva? Quell'energumeno si era decisamente guadagnato la sua più profonda antipatia con una sola frase. Bambina dell'asilo a chi?
    Si prese alcuni secondi prima di rispondere, per fare un respiro profondo e cercando di trattenersi dal rispondere molto male. « Non mi sono persa. » disse, con il tono più fermo e tranquillo che un essere demoniaco nel pieno di una crisi di nervi potesse utilizzare.
    "Sei in missione Altayr, hai bisogno di soldi e se perdi il controllo va all'aria tutto." si disse tra sé e sé: il datore di lavoro di quella sera l'aveva pagata abbastanza per lavorare in coppia. Altayr preferiva di gran lunga lavorare da sola, senza nessuno ad intralciarla, contraddirla e distruggerle i piani, ma se c'era da accettare un compagno di missione non si opponeva: il prezzo doveva essere però veramente soddisfacente. Per quella sera, si sarebbe dovuta far pagare almeno il triplo dell'effettivo, data la personalità di quell'uomo che aveva di fronte.
    « So esattamente dove mi trovo. » scandì le parole lentamente, cercando di non far trapelare rabbia o fastidio. Doveva mostrarsi calma e composta, come se le sue parole non l'avessero colpita sul personale, cosa che effettivamente avevano fatto.
    « Grazie del pensiero. » concluse, lapidaria, non distogliendo lo sguardo dalla figura davanti a lei. Non aveva mai atteso così impazientemente la fine di una missione senza neanche averla cominciata.

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    Cain anche quella volta si fece riconoscere, spuntando veleno su uno sconosciuto. Il fatto era che, in realtà, non ce l'aveva con quella persona. Insomma, come poteva? Era la prima volta che la vedeva, e anche se l'abbigliamento così particolare non gli permetteva di riconoscere al meglio i lineamenti, era sicuro, o quasi, non di averla mai vista.
    Ciò che aveva portato Cain a reagire in quel modo era stato il fatto di essere obbligato a lavorare con quella che sembrava una bambina. Infatti nelle parole del mercenario c'era un velo di speranza: non gli sarebbe piaciuto per niente che, quella ragazzina, lo avesse accompagnato durante la missione. Di fare da balia proprio non ne aveva voglia. Quindi, al suo interno, sperava ardentemente che quella sorta di "ninja" in miniatura fosse lì per puro caso, e che, quindi, il suo futuro compagno fosse in ritardo o stesse per arrivare.
    L'essere stato associato ad una fanciulla, quasi lo offendeva. No, togliamo pure il quasi.
    « Oh, non rigraziare me. Ringrazia la tua statura. », le rispose gelido, fulminandola con lo sguardo e travolgendola con quella coltellata acida e piena di sarcasmo.
    Una frase lo colse all'improvviso, provocandogli uno scatto involontario, dovuto alla prontezza dei riflessi. Si volse rapido, portando la mano sinistra al fodero, ma in procinto di estrarre Ragnell i suoi occhi incrociarono quelli del datore di lavoro, comparso improvvisamente alle loro spalle. Il suo viso era solcato da una lunga cicatrice che partiva dall'orecchio destro fino a raggiungere il sinistro, passando per il naso.
    « Non è molto professionale dare addosso al proprio partner, Cain. », lo ammonì, sistemandosi la cappa scura sulla testa.
    Il mercenario aggrottò le sopracciglia, tra l'incredulo e l'arrabbiato, lasciando ricadere lentamente l'arma all'interno del proprio fodero.
    « Al proprio... cosa? », chiese, sperando di aver sentito male.
    « Mi sembra di essere stato chiaro. Lei è Libra, dovrete lavorare assieme. », esordì il capo, allungando il palmo aperto verso la ragazza, indicandola.
    « Che vi piaccia o meno. », terminò, questa volta lanciando una frecciata ad entrambi.
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    Quell'armadio arrogante e presuntuoso le stava dando veramente sui nervi. Sapeva di non essere eccessivamente alta, non era il primo che glielo faceva notare, ma da lì a paragonarla ad una bambina dell'asilo ce ne voleva. E va bene, diamo per buono che lui era molto più alto di lei e in confronto lei sembrava una formica, che razza di educazione aveva ricevuto quel tizio?! Oh, beh, neanche lei era chissà quanto educata, ma prima di offendere qualcuno doveva almeno avere una buona ragione, cosa che lui non aveva assolutamente.E pensare che quella sera era partita entusiasta all'idea di andare di nuovo in missione dopo tanto tempo: a saperlo, si sarebbe finta malata.
    « Se essere alti significa essere stupidi come te » proferì, gelida, staccandosi dal muretto. « allora sì, ringrazio la mia altezza. »
    Aveva appena finito di parlare quando il ragazzo si girò di scatto, e di conseguenza anche lei si mise sull'attenti, ma quando udì una voce profonda che conosceva, si rilassò, lasciando la stretta sull'elsa del pugnale. Il datore di lavoro era arrivato, e la prima cosa che disse a quanto pare non fece esplodere di gioia il compagno - che intuì si chiamasse Cain. A dire il vero neanche Altayr era al settimo cielo, ma a contrario suo dalle sue labbra non uscì nessuna contestazione. Quando l'uomo la indicò con la mano, incrociò le braccia al petto, come a volerlo sottolineare che, sì, era la sua compagna e avrebbe dovuto accettarlo.
    « Tornando al nocciolo della questione » l'uomo sospirò, per poi alzare la testa e guardandoli in viso. « Sono stato in conflitto, fino a poco tempo fa, con Douglas Spencer, un negoziante di Ta Nulli: lui è riuscito ad incastrarmi e vorrebbe solo vedermi dietro le sbarre. Ebbene, la vostra missione stanotte è quella di recuperare tutti i documenti che certificano le mie colpe. » si leccò le labbra. « E lo vorrei tanto vedere morto. » le sue parole erano cariche di odio e gli occhi brillavano vogliosi di vendetta.

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    L'offesa ricevuta non l'aveva scosso più di tanto. Insomma, col caratteraccio che si ritrovava, il mercenario era abituato a ben di peggio che un semplice "stupido". Più di una volta le sue battute acide lo avevano portato ad infilarsi in situazioni molto più pericolose, che comprendevano risse e via dicendo, quindi quel commento lo portò solamente a sollevare un sopracciglio, sfoggiando una delle sue arie di sufficienza più fastidiose. La sua espressione diceva: è questo il meglio che sai fare?
    Avrebbe voluto fare di più, aprire bocca e sputargli addosso un "torna nel tuo funghetto, nano da giardino", ma si trattenne. Era già stato ripreso una volta dal datore, se fosse accaduto di nuovo avrebbe decisamente rischiato, e di perdere il lavoro a causa di una marmocchia non ne aveva proprio voglia.
    Scoprire che "quella cosa" dai grandi occhioni blu sarebbe stata la sua partner scosse Cain nel profondo, portandolo a perdere per un attimo la lucida freddezza che lo caratterizzava. Si ritrovò ad osservare il capo con le labbra socchiuse, in un espressione di insoddisfatta sorpresa. Si riprese presto però, notando che la presunta partner si faceva grossa alle parole del leader.
    « Sarà fatto. », fece, gelido e apatico come una macchina, di tutta risposta agli ordini che gli erano stati imposti.
    Uno sguardo alla sua sinistra, o meglio una coltellata, fu diretta verso Libra, con tutta l'intenzione di provocarla « Sempre che il nano non se la faccia a dosso prima. »
    Il datore, udendo le parole del mercenario, si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia, per poi scuotere leggermente il capo, come a dire "la vedo dura".
    Proseguì il suo discorso, cercando di non farci caso: dopotutto aveva sentito parlare di Cain, e sicuramente la sua fama non era dovuta alla sua gentilezza, tutt'altro, era conosciuto come un bravissimo mercenario ma con lingua troppo lunga e tagliente.
    « Questa mappa vi porterà all'abitazione. », esordì, estraendo dal mantello un foglio di carta. Lo porse a Cain, non tanto perché si fidasse più di lui, ma per comodità in quanto era più vicino.
    « Voglio i documenti, ma soprattutto lui. Morto. », sibilò, gli occhi ridotti a due maligne fessure.
    Il mercenario scosse la testa come cenno di assenso, non proferendo parola.
    Si avviò lungo il vicolo, con l'intento di raggiungere la strada principale per ritrovarsi nella mappa che gli era stata ceduta. Forse perché era stata disegnata a mano oppure perché, semplicemente, Cain non era particolarmente in gamba ad orientarsi con l'uso di carte geografiche, il mercenario faticò non poco a trovare il punto in cui si trovava. Più si osservava attorno più le idee gli si confondevano, ed un pensiero gli premeva insistente nel cervello: "ma chi diavolo l'ha disegnata questa mappa, una scimmia?".
    Peccato che la colpa di tutta questa confusione non fosse opera del tipografo, ma bensì della posizione della mappa, tenuta al contrario.
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    Il ragazzo non aprì più bocca, e questo significava solo una cosa: l'aveva zittito alla grande. Non sapeva più come rispondere, eh? Se l'era presa male perché sapeva che fosse la verità, sicuramente. Bah, non avrebbe certo lei asciugato le sue lacrime.: almeno adesso se ne sarebbe stato zitto per un po', o almeno così sperava. Un fiero sorriso si allargò sul suo volto: sapeva di essere la numero uno e glielo stava dimostrando. Che poi, le aveva appena dato della codarda, e la cosa non le piaceva affatto. Altayr era tutto tranne che quello, se lo sarebbe dovuto rimangiare.
    « Sono io quella che si dovrebbe preoccupare. » rispose di nuovo. « Di solito gli armadi come te sono sempre quelli che se la filano per primi. » Snap, due a zero. Oh, ecco che partivano gli applausi.
    Scese dagli allori appena il capo rifilò una mappa a Cain, sottolineando con voce maligna il fatto di volere la testa di quell'uomo. Ad Altayr scappò un mezzo sorriso: da poco dopo essere entrata nei cacciatori di taglie non era più stato un problema uccidere, anzi, le dava anche una leggera soddisfazione, come se a fine missione ammazzare qualcuno fosse d'obbligo. Nonostante fosse sicura che molte dei suoi colleghi la pensavano come lei, si era sempre tenuta questo pensiero per sé: aveva paura di apparire come una maniaca assassina che provava piacere nel far scorrere sangue. Una parte della sua coscienza aveva cercato più volte di convincerla che non era vero, che erano i suoi soliti pensieri arzigogolati a proposito di ciò che altri avrebbero potuto pensare di lei in determinate occasioni, ma non c'era verso di farle cambiare idea. Lei non si riteneva affatto una pazza pericolosa, ma aveva paura che qualcun altro lo pensasse.
    L'uomo la superò senza un minimo di considerazione, e fu costretta quindi a seguirlo, raggiungendo la via principale. Sotto la luce della luna, riuscì a definire in modo esauriente il fisico del compagno: come aveva previsto, era robusto e alto, con una miriade di catene metalliche attaccate ai vestiti e il fodero di una grossa spada al fianco. I capelli erano disordinati, di un blu intenso, dello stesso colore degli occhi, dal taglio severo. Le doleva ammetterlo, ma era un gran bel ragazzo: totalmente sprecato, visto il caratteraccio che si ritrovava.
    Non si era ancora mosso da dove era, ossia in mezzo alla strada, e lo vedeva ancora armeggiare con la mappa: magari stava cercando la strada più breve per arrivare alla dimora di Spencer. Si avvicinò, portandosi alla sua destra e lanciò una rapida occhiata al foglio. Strabuzzò gli occhi e le braccia le caddero sui fianchi: stava scherzando? Il suo volto era corrugato nella tipica espressione di chi non ci stava capendo granché, e Altayr ci mise pochi secondi a capirne il motivo.
    Gli rigirò la mappa tra le mani, per poi dirgli « E' questo il verso giusto. » Non poteva essere il classico tipo da tutto muscoli e niente cervello: da quel che si vociferava, il nome Cain a Ta Nulli si era sempre attribuito a un mercenario molto abile e risoluto. Era forse un caso di omonimia? O era solo una dote comune a tutti gli uomini di quella di non saper leggere una mappa? Un volta anche Ethan l'aveva sostenuto: "i veri uomini non utilizzano le mappe, si fidano del loro istinto".
    Il luogo da raggiungere era individuato con un puntino arancione, e gli occhi della mutaforma si persero tra vicoli e stradine sottili: le strade principale erano fin troppo scoperte, ma nei vicoli bui e non molto frequentati qualche bandito si beccava sempre. In entrambe le opzioni si rischiava. Optò alla fine per un percorso abbastanza neutro: era parallelo alla via dove si trovavano loro in quel momento e poi si ramificava in tre vicoli. Utilizzando quello più a sinistra, si arrivava a una delle entrate della casa di Spencer. Ci avrebbero messo anche meno che percorrere tutti i vicoletti, era il giusto compromesso. In caso avessero incontrato qualcuno sulla loro strada, Ta Nulli avrebbe contato qualche abitante in meno.
    « Per di qua. » fece, imboccando un vicolo dall'altra parte della strada che l'avrebbe portati proprio sulla via parallela.

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    Ahia, cara Libra, mai andare a toccare l'orgoglio di un uomo. Soprattutto quello di Cain, la quale etica principale è da sempre la determinazione. Qualunque fosse stata la situazione Cain, a prescindere dal suo stato fisico, avrebbe continuato a combattere fino alla fine, spingendosi allo stremo se necessario. In molti, nel corso degli anni, scambiavano quel suo coraggio a volte così estremo per egocentrismo, o addirittura stupidità. Ma nessuno poteva capire ciò che Cain sentiva dentro; ogni duello, per lui, era sacro, e scappare di fronte al proprio avversario era inconcepibile. Preferiva morire sotto i colpi di mille lame, ucciso da un valido avversario, piuttosto che distruggere la propria dignità.
    Per questo motivo si volse verso la ragazza, lo sguardo duro di uno che non scherza più.
    « Io non sono codardo. », ringhiò, pronunciando con particolare fermezza la parola "codardo", quasi a volerne enfatizzare l'importanza.
    Non le avrebbe permesso di avere l'ultima parola in quel contesto. Non di nuovo.
    Dopo quell'affermazione la partner si era aggiudicata il primo posto nella lista nera di Cain. O meglio, uno dei tanti primi posti, visto che comunque erano poche -ma davvero poche- le persone che andavano veramente d'accordo con il mercenario.
    Si può ben dire che i due compagni erano partiti col piede sbagliato, e la cosa non migliorò in seguito. Infatti quando Cain stava cimentandosi a leggere la mappa al contrario, Libra lo corresse, rigirandogli il foglio tra le mani. Se solo il mercenario non fosse stato così orgoglioso probabilmente sarebbe arrossito dalla vergogna. Cioè, davvero la stava leggendo al contrario? Che razza di idiota.
    Comunque sia non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato, soprattutto davanti a una saccente del genere. Distolse lo sguardo dalla carta, volgendolo su quello di Libra. Nei grandi occhioni cerulei della compagna vide rispecchiato il proprio sguardo, accigliato e infastidito come non mai. Stropicciò il foglio tra le mani in un raptus di collera quasi involontario, buttandolo poi letteralmente addosso a Libra, tutto accartocciato.
    « Gli uomini non hanno bisogno di mappe. », già, perché non saprebbero leggerle, eh Cain?
    Buttò lì la prima scusa che gli passava per la testa, optando per la più scontata del secolo, nonché la più usata dal genere maschile.
    Indignato, si allontanò di qualche passo, buttando le sguardo nei dintorni per capire quale fosse la strada da seguire. Peccato che la sua memoria fotografica non fosse delle migliori, e l'aver visto la mappa per il verso giusto per solo pochi istanti, sì, insomma, non aveva aiutato granché.
    Oltre che orgoglioso e scontroso, quel giorno il mercenario si era scoperto permaloso. Buono, dai.
    Alla fine, rassegnato all'idea di non avere un orientamento poi così raffinato, seguì la compagna, in silenzio. Sperava non infierisse, perché se l'avesse fatto, beh, non era certo che avrebbe saputo mantenere la pazienza.
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    Altayr cercò di non dare peso alle parole e ai comportamenti sgradevoli del mercenario, e avanzò senza indugi per imbucarsi nella strada parallela alla via principale. Sentiva i passi pesanti del mercenario dietro di lei. Non si voltò verso di lui, ma avrebbe scommesso qualunque cosa che la stava seguendo riluttante e con un'espressione infastidita e infuriata al contempo dipinta in viso. I due non erano partiti assolutamente col piede giusto, ed Altayr temeva seriamente la mal riuscita della missione, ma dall'altra parte si sarebbe impegnata più del solito: dopo, avrebbe fatto esplicitamente richiesta di non lavorare più con quell'armadio. Pensava di aver incontrato tizi antipatici e impossibile da sopportare, ma Cain aveva scalato l'intera classifica, posizionandosi primo fra tutti.
    Se prima Altayr l'aveva presa un po' sullo scherzo, come aveva fatto anche lui, ora la situazione era totalmente diversa. Non era più un botta e risposta, ma erano entrambi finiti per ferire l'orgoglio altrui. Non era un codardo? Ci mancherebbe altro, altrimenti il mercenario non era assolutamente il lavoro che faceva per lui. Aveva toccato un tasto dolente? Bene, perché anche Cain l'aveva fatto. Se non voleva essere definito codardo da persone che non sapevano di che pasta era fatto, lui non doveva azzardarsi a fare altrettanto.
    Aumentò la velocità del passo senza neanche volerlo, presa dalla frustrazione e dalla rabbia come era in quel momento. Quando sentì comunque i passi del mercenario più lontani di prima, rallentò, camminando vicino al muro, in penombra. Quella strada era almeno la metà della via principale, vi erano molti negozietti di ogni genere, tutti chiusi, ma alcuni bar erano aperti. Quasi nessuno era all'esterno, dato il freddo che faceva. Solamente uno si era avvicinato con aria di sfida, evidentemente brillo, ma era riuscito a metterlo k.o. senza problemi, facendolo finire al muro con un pugno dritto in faccia. Si stava forse sfogando? Forse, ma aveva bisogno di espellere la rabbia che aveva in corpo. Doveva calmarsi prima dell'inizio della missione, altrimenti con il fuoco che si ritrovava in corpo avrebbe potuto fare azioni avventate e mandare in aria tutto. Sperava solo che il mercenario non lo notasse, non voleva dargli soddisfazione e farsi vedere arrabbiata, lo era già lui e ne bastava uno. Doveva rimanere lucida e concentrata. Seppur quella notte rispondesse al nome di Libra, ancora non si comportava come un'esemplare cacciatrice di taglie.
    Prese a respirare più lentamente, ripetendosi quanto fossero importanti quei soldi che avrebbe guadagnato a fine missione e di conseguenza la riuscita di questa.
    Non ci volle molto per raggiungere i tre vicoli, e Altayr si fiondò nel primo a partire da sinistra, scomparendo nel buio. Ormai i suoi occhi si erano abituati all'oscurità, e avanzava senza troppe difficoltà. Alla fine di esso, si intravedeva un edificio bianco, dalle finestre dipinte di grigio. Aprì la mappa per metà, giusto per controllare la posizione del pallino arancione. Dopo un rapido studio dei dintorni, confermò la sua teoria: quella era la casa di Spencer.
    Attese il mercenario alla fine del vicolo, e quando la raggiunse gliela indicò con un cenno del capo. « Siamo arrivati a destinazione. » sussurrò, ficcandosi la mappa nello zainetto. Non le sarebbe servita più a molto: era il momento di agire.

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    Un incendio ardeva a piede libero dentro il petto di Cain. Era partito con una fiammella leggera, appena percettibile, poi quello scambio di battute aveva funto da comburente, alimentandolo al punto tale da renderlo quasi ingestibile.
    Il passo pesante di Cain echeggiava tra le mura dei vicoli, distinguendosi da quello della ragazza davanti a lui, felpato, quasi inavvertibile. Un macigno gravava sul torace del mercenario, e più i suoi occhi rimanevano puntati sulla schiena della compagna, quasi a volerla trafiggere con lo sguardo, più quella pietra immaginaria lo opprimeva. Si sentiva soffocare sotto le sue poderose dimensioni, e l'unico modo per liberarsene sarebbe stato sfogarsi. Liberare tutta la collera e i sentimenti negativi che celava dietro quello sguardo glaciale. Ma non poteva farlo, o meglio, non riusciva: quel poco di orgoglio che gli era rimasto intatto dopo l'ultima insinuazione lo obbligava a rimanere in silenzio, trattenendo i suoi gesti più impulsivi con potenti catene invisibili.
    Probabilmente qualche neurone si era svegliato dal sonno eterno e gli aveva ricordato che il suo comportamento, fino a quel momento, non era stato per niente professionale. Avrebbe dovuto recuperare punti, molti punti, e per iniziare la strada migliore sarebbe stata quella di dimostrarsi "superiore", non cedere più alle provocazioni -che poi, alla fine, erano sempre partite da Cain. Sarebbe stata molto dura, ed il mercenario lo sapeva benissimo, ma doveva perlomeno provarci, mantenere integro quel frammento di orgoglio che riluceva all'interno del suo addome.
    Una volta giunti a destinazione gli occhi di Cain finalmente si staccarono dalle spalle scure della compagna. Spostò lo sguardo sulla casa, studiandola, per poi avvicinarsi con cautela, posizionandosi accanto la finestra, la schiena poggiata al muro. Sporse il viso verso il vetro, osservando con la coda dell'occhio l'interno della stanza: l'area pareva deserta, le luci del primo piano spente. Ipotizzò che Dounglas stesse dormendo.
    « Come entriamo? », chiese in un soffio, voltando il capo verso la partner.
    I suoi metodi di "entrata in scena", come si suol dire, in quell'occasione erano a dir poco inutilizzabili: sfondare una porta a suon di calci all'una di notte non era una gran idea, anzi, era il modo perfetto per farsi scoprire.
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    La cacciatrice seguì con lo sguardo il compagno che si andava posizionando vicino alla finestra rasoterra. Il ragazzo si sporse, guardando attraverso il vetro: le luci del primo piano erano spente, a quanto pare il loro obiettivo era tra le braccia di Morfeo. La domanda di Cain su come potersi infiltrare nell'edificio arrivò secca e si avvicinò a lui per studiare la situazione. La finestra vicino a loro era bassa, poteva praticamente considerarsi una porta a vetri: il materiale di cui era fatta era comunque spesso, non era difficile notarlo. L'unica sarebbe stato rompere il vetro, ma indubbiamente era un metodo rischioso, perfetto per far accorgere al padrone di casa che erano appena entrati dei ladri. C'era altrimenti il portone principale... Tornò indietro di qualche passo, posizionandosi davanti ad esso. Era di legno massiccio, rovinato dagli anni. Si piegò per controllare la serratura, anche quella non appariva al meglio. Era sporca e il buco della chiave non era ben definito e pulito. Il pomello, toccandolo, si girava leggermente. Meno male che Spencer non le aveva dato una sistemata prima del loro arrivo: era perfetta per entrare nell'abitazione senza il minimo rumore.
    Aprì lo zaino con uno scatto, tirandone fuori la sua chiave dinamometrica di fiducia e una scatola di graffette , prendendone un paio, e senza ulteriori indugi si mise al lavoro. Inserì la chiave nella parte inferiore della serratura e nella superiore la graffetta. Da lì, doveva solo trovare e spingere i perni fuori dal cilindro e girare la chiave nel verso giusto: era una serratura debole, e ci mise poco o niente a liberarsene. Alla fine dell'operazione, mettendo a posto gli strumenti, notò che il mercenario l'aveva raggiunta.
    Lo guardò negli occhi. Era il momento cruciale, la missione era cominciata. « Non possiamo permetterci errori. » entrambi sapevano che non potevano assolutamente sbagliare, che per quanto non andassero d'accordo dovevano portare a termine quell'incarico. Poi ognuno sarebbe andato per la sua strada e arrivederci e grazie. Doveva solo avere un po' di pazienza e sopportarlo fino a che non avrebbero riportato la testa del negoziante e i documenti al datore.
    « Cerchiamo di porre fine a questa storia velocemente. » aggiunse, sistemandosi ancora una volta la maschera che le copriva metà viso e stringendosi la coda alta.
    « Vai avanti tu? In caso ti copro le spalle. » propose, prendendo dallo zaino il suo fedele arco e rimettendoselo in spalla. Incoccò subito una freccia, pronta a scagliarla in caso di bisogno. Fosse stato per lei avrebbe aperto la porta e si sarebbe intrufolata in casa senza chiedere di sicuro il permesso a quell'armadio dai capelli blu, ma la ragione le impose che, se non voleva rischiare di uccidere lui anziché Spencer per la rabbia che le aveva fatto montare, doveva lasciarlo andare avanti. Così si sarebbe sentito in una posizione di controllo e magari non si sarebbero scannati per tutto il tempo, sussurrandosi insulti nel buio della stanza.
    Diamine, a che livello si stava abbassando per quel gruzzolo di quattrini di cui aveva tanto bisogno?

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    Alla domanda del mercenario la cacciatrice non rispose. La vide dirigersi verso la porta e chinarsi a terra, estraendo dallo zaino una serie di strumenti insoliti che Cain, fino a quel momento, non aveva ancora avuto l'opportunità di vedere. Uno era un arnese strano, metallico con un'appendice tondeggiante sull'estremo superiore, mentre gli altri oggetti parevano semplici graffette. D'istinto le si avvicinò, cauto, le sopracciglia corrucciate in un espressione tra il perplesso ed il curioso. Si posizionò alle sue spalle, osservando in silenzio ogni suo movimento, come a voler capire cosa diavolo stesse combinando, quando un "clack" improvviso lo scosse, distogliendo la sua attenzione dalle mani della ragazza. La porta quasi magicamente si socchiuse, mostrando una fessura buia.
    Al mercenario venne quasi spontaneo chiedere "ma come cavolo hai fatto?", ma le parole gli morirono presto in gola, venendo prontamente soffocate dall'intervento della ragazza.
    Quel "non possiamo permetterci errori" suonò alle orecchie di Cain come una sorta di ordine, o, ancora peggio, un'insinuazione bella buona sul fatto che lui avrebbe potuto, in qualche modo, metterli entrambi nei guai. Probabilmente la frase non gli era stata rivolta con quell'intento, eppure l'orgoglio ferito del ragazzone bluastro sanguinò di nuovo, facilitando il fraintendo di quella frase.
    Cain si impose di non risponderle a tono, trattenendo eventuali frecciatine ma non riuscendo, invece, a non indurire lo sguardo
    « Muoviamoci. », fece in un soffio, fermo.
    La superò in un passo, posizionandosi davanti alla porta. Allungò quindi il braccio, premendo piano sulla superfice lignea perché si aprisse. Il portone si spalancò con un movimento lento e graduale, accompagnato da un debolissimo ma inquietante cigolio.
    Un lungo corridoio scuro si mostrò alla vista di Cain, vi erano diverse porte alle pareti, ma il mercenario non seppe, almeno da quella prospettiva, dire con certezza quante ce ne fossero in realtà: il posto era troppo buio, ed i suoi occhi da faerico non erano abituati ad un simile sforzo. Non diede a vedere però questa sua debolezza, portando invece con decisione la mano destra sull'elsa della spada per estrarla: un raggio lunare si riflesse sulla lama dorata, provocando un inevitabile barlume. Il mercenario ne appoggiò il dorso sul copri spalla in metallo, facendo poi segno alla compagna, con la mano libera, di seguirlo.
    Entrò nella prima stanza alla sua destra, quella che, in linea d'aria, doveva corrispondere al salone che avevano intravisto dalla finestra. Anche lì aprì la porta, con cautela, ritrovandosi davanti ciò che effettivamente si aspettava: due sofà, un tavolino in vetro ed una libreria. Niente di pericoloso, almeno all'apparenza.
    Con l'adrenalina in corpo che gli causava continui brividi, il mercenario si avvicinò al centro della stanza, gli occhi vigili che scattavano da un estremo all'altro della camera. Afferrò un foglio bianco da terra, cercando di leggere, per quanto poteva, ciò che vi era scritto sopra.
    Cilecca, quello trovato non era che una pagina scarabocchiata.
    Si lanciò il foglio alle spalle, incurante, rivolgendosi poi alla compagna, serio in viso.
    « Cerchiamo il documento. », fece, volgendo poi lo sguardo verso la libreria.
    Lì sicuramente doveva esserci qualcosa di interessante.
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    Cain avanzò sicuro di sé all'interno della casa, e senza indugi si infilò nella prima porta alla loro destra. Altayr lo seguì poco dopo, curandosi di socchiudere la porta con il piede. Davanti a lei si presentò un lungo corridoio, completamente buio, sul quale vi erano affacciate tutte le camere della casa. Diede tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio e raggiunse il mercenario. Era entrato in una stanza dall'arredamento minimale, uno studio, con una grande finestra alla parete parallela alla porta. Il ragazzo stava armeggiando con un foglio, che poi lanciò dietro di sé con noncuranza. Altayr gli si avvicinò, buttando un occhio al foglio a terra e continuandosi a guardarsi intorno. Due sofà chiari circondavano un tavolino, su cui era poggiato un intero servizio da tè non particolarmente decorato. In fondo alla stanza, attaccata al muro e coprendone l'intera superficie, c'era una libreria piena di volumi messi alla rinfusa: alcuni con la copertina rivolti verso l'esterno, altri messi uno sopra all'altro, tutti di colori e grandezze diverse e da molti venivano fuori fogli stropicciati e fittamente scritti. Per fortuna non era stracolma, altrimenti ci sarebbe stato da lavorare un bel po'.
    A quanto pare, il mercenario aveva avuto la sua stessa idea, e lo superò, appoggiando a terra l'arco e prendendo in mano un paio di fogli: diede un'occhiata rapida, ma non si trattava di quello che stavano cercando. Sfogliò anche qualche libro, ma a parte carte di caramelle profumate e segnalibri sgualciti non trovò nulla di interessante.
    « E' un documento ufficiale, non penso lo tenga in mezzo alle scartoffie. » sussurrò, rimettendo a posto l'ennesimo volume e riprendendo la sua arma in mano. Si voltò, pronta a imboccare l'uscita. Lanciò uno sguardo al compagno e fece un cenno con la testa, indicandogli di seguirla. E pensare che fino a poco fa gli aveva detto che gli avrebbe coperto le spalle...
    Cercò di fare meno rumore possibile per attraversare il corridoio. Aprì con cautela la porta di fronte con la spalla, preparando la freccia sulla corda dell'arco. Si ritrovarono in quella che sembrava la sala da pranzo: un tavolo di legno troneggiava al centro con quattro sedie dai cuscini un po' sgualciti; alle pareti vi erano quadri di diversi paesaggi e un mobiletto con un vaso di fiori finti. Nessuna traccia di fogli in giro, o cassetti nel quale custodirli.
    « Qui è la sala da pranzo. » mormorò al compagno. « Se vuoi darci un'occhiata fai pure, ma io proporrei di cercare da un'altra parte. »
    Dovevano trovare l'ufficio da qualche parte, ogni negoziante che si rispettava ne aveva uno. E Douglas non poteva non essere tra quelli. Quasi sicuramente avrebbero trovato ciò che cercavano proprio in quella stanza.
    Stava per lasciare il posto a Cain quando un rumore sommesso le arrivò all'orecchio e scattò subito sull'attenti, voltandosi di scatto e assottigliando lo sguardo. Entrò nella stanza piano, con cautela, l'arco in tensione e la freccia pronta a essere scoccata. Che qualcuno fosse rimasto sveglio e loro due non se ne erano accorti? Sentiva i nervi a fior di pelle, i muscoli in tensione. La stanza era comunque silenziosa, e dopo poco Altayr tornò a rilassarsi. Fece per tornare all'uscita, ma un qualcosa che avvertì venire verso di lei con la coda dell'occhio la fece scattare: tese la corda dell'arco e incoccò la freccia, senza neanche pensarci. Spalancò gli occhi quando scoprì che ciò che le stava puntando al viso non era nient'altro che un gatto smilzo e dagli occhi dorati.
    Si spostò, riuscendo ad evitarlo, ma per errore fece partire la freccia davanti a sé, che si conficcò in uno dei quadri appesi al muro.
    Il cuore le batteva a mille. Cominciò a respirare lentamente, e colse il gatto sgattaiolare fuori dalla stanza. « Santi numi... » disse tra sé e sé. Non se lo aspettava proprio, e ilo fatto che fosse risultato essere un micio l'aveva colta alla sprovvista. « Mi ha fatto venire un colpo, quel gattaccio! » proferì, quando il battito cardiaco tornò alla normalità. Sollevò lo sguardo sul suo compagno, che non sembrava aver reagito meglio di lei.

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    Cain sentiva gli occhi bruciare; non era abituato a lavorare in posti del genere, quasi completamente bui e senza luce artificiale. Abbracciato da quell'oscurità si sentiva maledettamente indifeso, vulnerabile nonostante la rassicurante presenza di Ragnell e le diverse armature che proteggevano il suo corpo. Era una sensazione orribile, come se l'avversario fosse un qualcuno di impalpabile, assolutamente impossibile da vedere e colpire: questa battaglia, Cain, non aveva modo di vincerla.
    Prendendo fra le mani l'ennesimo foglio bianco e avvicinandolo al viso, assottigliando gli occhi, il mercenario constatò l'ennesima delusione: il documento che cercavano non era in quella stanza. Libra confermò i suoi pensieri poco dopo, con un sussurro che, probabilmente, non era neanche diretto a lui.
    Seguì la compagna nella stanza accanto, strofinandosi gli occhi col guanto in cuoio, ovviamente senza farsi notare. Non poteva mostrarsi debole, o comunque in difficoltà: era più forte di lui, quel poco di orgoglio che gli era rimasto intatto ormai la faceva da padrone.
    Attraversarono il corridoio e s'infilarono nella porta di fronte a quella appena visitata, dove un tremolante bagliore lunare illuminava un lungo tavolo, posto centrale nella stanza. Era attorniato da diverse sedie e, poggiati alle pareti, si distinguevano quadri di paesaggi.
    Mentre Libra proponeva di raggiungere un altra ala della casa, Cain si allontanava, raggiungendo il mobiletto in legno per ispezionarlo. Ne tastò le pareti per sentire a tatto eventuali scanalature, ma niente, pareva un mobile completamente privo di cassetti.
    A quel punto si voltò, puntando lo sguardo dalle iridi color cobalto su quello della compagna e annuendo alle sue parole, muovendo rapido capo. Prima che il mercenario potesse fare un passo verso la partner, un suono sospetto irrigidì entrambi. Cain sentì brividi gelidi pungergli la schiena e una scarica di adrenalina attraversargli il corpo, immobilizzandolo sul posto. Il suo sguardo accigliato si mosse da una parte all'altra della stanza, cercando di capire da dove fosse venuto il rumore, mentre la mano sinistra si univa all'altra nel brandire la spada. Nonostante il mercenario cercasse di concentrarsi sui suoni, l'unico rumore che distingueva chiaramente era quello del suo cuore palpitare affannato dentro il suo petto.
    Un effetto acustico particolare fece scattare Cain sull'attenti, la punta dell'arma diretta verso la porta: la corda di un arco andò in tensione, pronta a scagliare una fraccia. Il mercenario agì d'istinto: udendo il secco "tong" che accompagnava lo scoccare di una freccia si lanciò a lato, con una frase lì, sulla punta della lingua, pronta per essere tuonata. "Ma che diavolo fai?", avrebbe voluto gridare, se solo qualcosa non lo avesse urtato con forza, prendendolo alla sprovvista e imponendogli un gesto del tutto involontario. Infatti, sentendosi attaccato, Cain menò un fendente con la propria arma, finendo per colpire il pavimento e, beh, come ci si può aspettare, lasciando un bel taglione sul parquet. Oltre a un forte fragore metallico si avvertì chiaramente un miagolio sconvolto, ed il mercenario giurò di aver visto la sagoma di un gatto -ormai divenuto una grossa palla di pelo- fare un triplo salto mortale all'indietro, con tanto di gira volta.
    Il tempo che il gatto fuggisse via e, di nuovo, tornò a regnare il silenzio.
    Cain, del canto suo, rimase diversi istanti nella stessa posizione, con Ragnell ancora conficcata nel pavimento. Non riusciva a capacitarsi di ciò a cui era stato partecipe, e la sua testa si trovava in un leggero stato confusionale.
    « Non dire nulla. », disse, scandendo con chiarezza ogni parola, come a dire "ridi e ti ammazzo".
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    Diamine, che confusione avevano combinato. E tutto per colpa di un gatto. Un gatto. In quella stanza semi-buia, l'animale aveva preso entrambi di sorpresa. I suoi colleghi non lo avrebbero mai saputo.
    Sia lei che il suo compagno avevano danneggiato qualcosa: il quadro sopra l'unico mobiletto presente nella sala era stato rovinato da una delle sue frecce, mentre Cain aveva menato un fendente all'aria e la spada si era conficcata nel pavimento di legno. Segni che potevano passare per futili lì per lì, ma abbastanza riconoscibili alla luce del sole. Avevano lasciato delle tracce del loro passaggio, e non andava affatto bene. Ma non importava, Douglas sarebbe morto quella notte stessa.
    Sembrò volerci più tempo al ragazzo per riprendersi, e non le diede neanche il tempo di dire nulla o invitarlo a continuare la missione che subito se ne uscì con un « Non dire nulla » brusco e minaccioso. Altayr alzò un sopracciglio e, dopo aver recuperato la sua freccia, uscì dalla stanza senza proferir parola. Era inutile utilizzarne con un individuo del genere. Entrambi erano stati spaventati da un gatto innocente e indifeso, perché mai avrebbe dovuto ridere di lui? Si stava vergognando come un cane anche lei, cosa credeva?
    Lasciò perdere la questione, non aveva bisogno di arrabbiarsi e agitarsi ancora più di quel che già era. Si guardò in giro per vedere se qualcuno si fosse accorto della loro presenza, ma non sembrava esserci anima viva. Avevano tutti il sonno così pesante? Attraversò il corridoio un'altra volta e si buttò a capofitto in un'altra stanza, la quale si rivelò essere la cucina. L'ambiente non era molto luminoso e tanto meno spazioso: i mobili di legno chiaro occupavano tutto lo spazio disponibile.
    Si addentrò nella stanza giusto per vedere se in qualche cassetto o sui piani di lavoro potesse trovare qualcosa, ma non era molto ottimista a riguardo, lo faceva più che altro per scrupolo. Mentre apriva i vari cassetti strapieni di vecchie tovaglie, stracci usati e posate messe alla rinfusa, ripensò alla scena di poco prima. Si erano entrambi spaventati per un gatto, e i malcapitati erano una cacciatrice di taglie e un mercenario, entrambi professionisti. Se contiamo poi che avevano fatto i gradassi fino a quel momento e lui era letteralmente un armadio robusto e fiero, alto, muscoloso e orgoglioso. Trattenne una risata, mentre nella sua mente si disegnava una caricatura a mo' di fumetto di quel che era successo in sala da pranzo. Il suo partner faceva parte del suo stesso mondo, i loro impieghi non erano poi così tanto diversi, ma a causa del suo comportamento non lo aveva catalogato affatto bene e lo aveva distanziato. Non che adesso la sua voglia di tagliargli la lingua e farlo stare buono con un potente sedativo fosse scomparsa, anzi, la sentiva forte e presente come la prima volta che le aveva rivolto la parola, ma almeno aveva constato che sì, era umano anche lui e si spaventava per un "attacco" improvviso quando voleva apparire inattaccabile.
    Appena il ragazzo entrò nella stanza, si ricompose, facendo comunque un po' di fatica a far scomparire il sorrisetto dalle labbra. Al buio non l'avrebbe comunque notato.
    « Ho già controllato. Non c'è nulla. » fece, chiudendo l'ultimo cassetto. « Proseguiamo. »

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    Quei due saranno pure stati famosi per la loro professionalità, ma quel giorno, di professionalità, se ne vedeva ben poca. Prima gli scambi di occhiatacce e battute pungenti davanti al datore, ed ora, come se non bastasse, quelle prove inconfutabili che avevano entrambi lasciato sul campo. La cacciatrice di taglie ed il mercenario avevano, come si suol dire, lasciato un segno del loro passaggio, e la cosa non avrebbe portato a nulla di buono. Cain ne era cosciente: dentro di sé, osservando il taglio sul parquet che aveva provocato l'affondo della sua arma, sentiva una moltitudine di sensazioni avvinghiarsi tra loro, e tra queste il suo istinto che gridava a gran voce per farsi sentire. Gli suggeriva che, tutto quel casino che avevano provocato, avrebbe reso ancora più ardua la loro missione. Non sapeva né come né quando, ma uno strano presentimento lo avvertiva che, prima o poi, avrebbero avuto seri problemi.
    Subito dopo aver parlato il mercenario si costrinse a mantenere un assoluto silenzio, ascoltando i suoni attorno a sé. Nessun rumore proveniva dalle altre stanze se non i passi di Libra, quindi, o Douglas aveva il sonno pesante, ma davvero molto pesante, oppure in casa, al momento, non c'era anima viva -gattaccio a parte, ovviamente.
    Sollevò la spada da terra, sistemandola sul copri spalla in metallo, e anche Cain uscì dalla stanza. Percorse il corridoio con sguardo vigile, gli occhi che si muovevano da una parete all'altra con circospezione. La vista scarsa avvantaggiò in un qual modo l'udito del mercenario, come se il suo organismo, davanti a tale svantaggio, avesse reagito cercando di amplificare un altro dei cinque sensi. Gli pareva di sentire suoni ai quali mai, durante il giorno, alla luce del sole, avrebbe fatto caso: in particolare lo incuriosì un rumore che scoprì poi essere quello delle fusa di un gatto, lo stesso che prima lo aveva spaventato a morte, e che ora, placido, si strusciava contro il suo stivale. Il mercenario a quel gesto reagì sbuffando, allontanando l'animale da sé con un mezzo calcio.
    In procinto di raggiungere la partner Cain venne bloccato proprio sulla porta dalla voce di Libra. Il mercenario si ritrovò ad annuire silenziosamente alle sue parole, precedendola, questa volta, nel raggiungere la stanza successiva. Ripercorse il corridoio ed aprì col piede una porta socchiusa che dava su quello che pareva un mare nero, completamente nero. Cain si ritrovò a pensare che, probabilmente, si trattava di una stanza senza finestre, o comunque con le serrande abbassate, e la cosa lo insospettì. Si chiese se ci fosse o meno un motivo per mantenere quella stanza così "sigillata", ma i suoi dubbi svanirono, ahilui, al suo primo passo dentro la quest'ultima. Infatti il tentativo di alzare il piede risultò vano, in quanto qualcosa lo bloccò, costringendo Cain a muovere inaspettatamente l'altro piede, facendogli, così, perdere rovinosamente l'equilibrio. Come ci si può aspettare cadde a terra, ed il suono che provocò, simile in tutto e per tutto a quella di un intera ferramenta rovesciata, fece pregare mentalmente il mercenario che, davvero, non ci fosse nessuno in casa.
    « Dannazione. », biascicò, prono, le mani ancorate al suolo con i muscoli delle braccia tesi. Fortuna che aveva mollato la spada, lasciandola cadere a terra, perché altrimenti si sarebbe trovato come souvenir di quella missione o un bernoccolo o altrimenti un bel naso sanguinante, a sua scelta.
    Rassegnato, rilassò i muscoli, lasciandosi cadere al suolo, la fronte poggiata sulla moquet che odorava maledettamente di stantio e polvere.
    « Non è possibile! », imprecò tra sé e sé, forse più ad alta voce di quanto non volesse, riferendosi al fatto che, beh, quella missione si stava rivelando sicuramente una delle più "sfortunate" che avesse mai attuato.
    Si ritrovò a stringere entrambi pugni in un vago tentativo di placare quella rabbia crescente che ardeva dentro il suo petto, mentre la fronte batteva ripetutamente al suolo e nella sua testa profilavano pensieri che, beh, preferisco non esporvi. Alcuni termini potrebbero scioccarvi.
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    Il mercenario non si scomodò neppure ad entrare: appena Altayr lo avvertì che in quella stanza non c'era nulla, lui la precedette ed entrò in un'altra stanza. La mutaforma rimase ancora un po' in quella stanza, si avvicinò alla finestra e diede un'occhiata fuori. In giro non c'era nessuno e l'unica fonte di luce era la luna, piena e candida, dato che i pali della luce funzionavano poco e male. Si staccò dalla tenda, aguzzando l'udito. Non riusciva a percepire nessun suono all'infuori dei passi suoi e del compagno. Eppure, dopo tutta la confusione che avevano provocata in sala da pranzo si sarebbe aspettata di trovare qualcuno sveglio in corridoio, invece nulla. Regnava il silenzio più totale. O almeno fino a quel momento.
    Si ricredette appena alle sue orecchie giunse un suono sordo e pesante, che proveniva da una stanza vicina. Si precipitò fuori dalla stanza, la corda dell'arco in tensione e controllando ogni angolo del corridoio. Un'imprecazione detta sottovoce - che comunque si sentiva ugualmente, in tutto quel silenzio - la indirizzò verso una porta aperta che dava su una stanza buia.
    « Cosa è succes- » esordì ma non riuscì a finire la frase. il piede avanzante si incagliò in qualcosa che non seppe riconoscere sul momento, e si ritrovò irrimediabilmente a terra. L'arco le sfuggì di mano, a pochi metri da lei, e un paio di frecce che portava sulla schiena le caddero sulla moquette.
    Strabuzzò gli occhi e si mise seduta. Ci mise poco ad abituarsi al buio pesto della camera, e subito riconobbe la figura possente di Cain poco distante dalla sua, anche lui faccia a terra. Quindi l'ostacolo che aveva incontrato era stato proprio lui? Dove l'aveva lasciata la professionalità quella notte, in Accademia?
    Stavano entrambi facendo una gaffe dietro l'altra, e per gente come loro la cosa era inconcepibile. Si stava vergognando da morire, e non riusciva a non prendersela con sé stessa. Se poi aggiungiamo il fatto che voleva dimostrare al partner di non essere una bambina d'asilo come l'aveva definita prima di cominciare il lavoro sporco... beh, stava fallendo miseramente.
    Ma almeno neanche lui se la stava cavando meglio. Si sentiva un po' meno sola, non era l'unica a star combinando pasticci uno dietro l'altro. Nessuno dei due era perfetto e invincibile come voleva far credere, erano entrambi umani. Al momento però non sembravano volerlo accettare.
    Non disse comunque nulla, il ragazzo sembrava abbastanza su di giri di suo. Imprecava a bassa voce contro il pavimento. Era evidente che fosse arrabbiato. Altayr si morse il labbro, consapevole che non poteva dare sfogo alla sua rabbia verso sé stessa in quel momento: erano nel bel mezzo di un incarico, avrebbe preso a pugni il muro una volta tornata in Accademia.
    Non riuscì però ad indurire lo sguardo nell'osservarlo: lo sentiva molto simile a lei, in quel contesto.

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    Cain, lungo disteso a terra, con la fronte poggiata al suolo, si ritrovò a pensare che l'odore di quella moquet fosse a dir poco nauseante. Era un misto tra stantio e ammuffito, combinazione che, nell'insieme, provocò un fastidioso pizzicore nelle cavità nasali del mercenario. Prurito che, in pochi istanti, si trasformò in un gigantesco, rumoroso starnuto, che per quanto trattenuto produsse un rimbombo tuonante tra le pareti.
    In quel momento Cain avrebbe voluto sotterrarsi. Quel giorno, a partire dalla conoscenza con Libra, la propria compagna, era stato un susseguirsi di continue figuracce. La prima con la mappa, quella stupidissima mappa che non era riuscito a leggere per il verso giusto. Non tanto perché non sapesse leggere le mappe: Cain, di mappe, ne aveva viste e lette diverse; semplicemente non ci vedeva, o meglio, faceva fatica a vedere, ed i caratteri minuscoli con cui era stata scritto l'oggetto in questione, beh, non avevano certo aiutato la vista precaria del mercenario. Per non parlare poi del buio in cui erano costretti a lavorare e che, per la seconda volta, aveva giocato un brutto scherzo al mercenario, facendogli incastrare il grosso piede in una fessura di moquet rialzata e staccata dal terreno.
    Una rabbia cieca ribolliva all'interno del petto del mercenario, in quel momento. Sentiva la mani fremere, una voglia incontrollabile di tirare un cazzotto contro il muro per sfogare tutta quella nube di sentimenti negativi che lo assillava. Era arrabbiato, terribilmente arrabbiato con sé stesso. Avrebbe voluto gridare, rompere qualcosa, ma non poteva, doveva trattenersi per mantenere intatta quel minimo di dignità che gli era rimasta; a lui le opinioni altri non pesavano, ma quel caso era un'eccezione: si era permesso di fare l'arrogante con Libra, ed ora, per la terza volta, si era ritrovato suo malgrado a mostrarsi debole. La cosa lo faceva imbestialire.
    Sentendo la compagna avvicinarsi, Cain fece per alzarsi, ma prima che le sue ginocchia riuscissero a toccare terra qualcosa urtò il suo stinco. Seguì un tonfo sordo, accompagnato dal rumore del legno che si schianta contro il terreno. Cain, per quanto la sua vista fosse precaria, capì cosa stava accadendo: Libra era caduta, probabilmente inciampando sul mercenario, lungo disteso al suolo.
    Nessuno dei due disse nulla. Cain per primo non si azzardò ad aprir bocca, lasciando che su di loro calasse un imbarazzante silenzio. Per quanto il mercenario apprezzasse il silenzio, in quel caso fu il primo a romperlo, e anche di buon grado, alzandosi e sbattendosi via la polvere dai vestiti. In verità, se vogliamo dirla tutta, inconsciamente diede le spalle alla compagna, come se quella situazione lo stesse mettendo a disagio e cercasse in tutti i modi di evitare il suo sguardo. Dopotutto anche lui, per quanto si atteggiasse a duro, era umano.
    Mentre si chinava a terra per afferrare l'arma, un dubbio lo percosse. Avrebbe dovuto scusarsi, dopotutto era stato lui a causare la sua caduta, ma il suo orgoglio misto al suo caratteraccio non glielo permettevano. Le parole "chiedo perdono" e "scusa", nel vocabolario di Cain erano state cancellate, se non addirittura vietate.
    « Coraggio. », fece, porgendole la mano, le sopracciglia leggermente aggrottate, ma non per questo adirate.
    Aiutarla era l'unico modo che aveva per chiederle scusa senza dover per forza parlare. Poi se avesse accettato o meno, erano fatti suoi.
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    Era riuscita a recuperare il suo arco senza particolare sforzo: aveva allungato il busto e l'arma era tornata in mano sua. Le frecce nessun problema, erano cadute davanti al suo viso, dato che erano scivolate sopra il suo collo. Fece per alzarsi, quando la voce di Cain le fece alzare la testa. I suoi occhi, ormai abituati all'oscurità, delinearono la figura della mano del mercenario davanti a lei. Volse lo sguardo verso il viso del mercenario, che non si vedeva comunque chiaramente. Era curiosa di sapere che espressione avesse in quel momento. Non l'aveva detto con tono di sfida o altamente strafottente come aveva fatto fino ad allora. Voleva aiutarla davvero? Era la stessa persona che aveva incontrato quella sera? Ma ne siamo proprio sicuri? Stentava a crederci, molto sinceramente. Aveva sbattuto la testa molto forte sul pavimento, non riusciva a trovare altra spiegazione al suo comportamento.
    Cain non sembrava comunque tipo da tendergli la mano per poi lasciarla cadere di nuovo: non appariva come uno scherzo, ecco. Ci doveva essere una motivazione in quel gesto, non le era parso una persona gentile con chiunque indistintamente. Oddio, magari era la persona più cordiale del mondo, ma da quel che aveva visto quella notte non lo aveva catalogato come tale.
    Era forse un modo alternativo di scusarsi per il capitombolo che le aveva fatto fare? Può darsi, era la motivazione più probabile - o per meglio dire, l'unica. O almeno, sarebbe stato quello che avrebbe fatto anche lei se fosse stata al suo posto.
    Lei era caduta a causa sua: poniamo il fatto volesse scusarsi, era scattato l'odio a prima vista e lo avevano anche dimostrato verbalmente. Non avrebbe mai detto "mi dispiace".
    Non sapeva se le aveva porto la mano proprio per questo motivo o semplicemente voleva concludere in fretta la missione e cercava di farglielo capire in modo indiretto. Fatto stava che Altayr era propensa a pensarla come un modo per scusarsi senza dirlo esplicitamente.
    Non sapeva comunque se accettare la gentile "offerta", ma in qualche modo si sentiva affine al ragazzo. Avrebbe fatto la stessa identica cosa al posto suo. Se avesse afferrato la sua mano non si sarebbe sentita debole in quel contesto. Stava accettando delle scuse, non era in difficoltà, non stava apparendo bisognosa di aiuto. Si poteva fare.
    Sebbene fosse in grado di rialzarsi con le proprie gambe, la ragazza afferrò la mano del mercenario e si fece aiutare. Il suo era un modo per comunicargli che aveva accettato le sue scuse, perciò non disse nulla dopo, convinta che le parole non servissero.
    « Bene, diamoci da fare. » disse piano, andando verso le finestre e aprendo di poco le persiane, giusto per illuminare un poco la stanza. « Dividiamoci il lavoro: io mi occupo della libreria, tu pensa alla scrivania. » aggiunse poi. Non sarebbe stato male un "per piacere" a fine frase, ma scartò subito l'idea.
    Forse lei e Cain si assomigliavano più di quanto pensassero.

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    Era più forte di lui, pronunciare parole di scuse, per Cain, era peggio che ricevere una coltellata in pieno petto. Non era mai stato abituato a chiedere scusa, lui agiva e basta, poi se sbagliava, peccato. La volta dopo avrebbe imparato a comportarsi in modo differente, forse. Molte persone, quelle più superficiali, proprio per questo finivano per giudicarlo troppo in fretta, vedendolo come una persona cattiva, cosa che in effetti era probabilmente, ma solo in parte.
    Cain non era ciò che si può definire loquace, tutt'altro: parlare, per lui, era una perdita di tempo. Poche parole e più fatti, era sempre stato il suo motto. E lo stesso valeva in situazioni del genere, se doveva esprimere il proprio dispiacere, oppure giustificarsi, preferiva farlo a gesti, dimostrando nella realtà ciò che gli passava per la testa. Poi se gli altri erano poco furbi da capire la cosa, fatti loro, Cain era fatto così e di certo non dava troppo peso ed eventuali reazioni scontrose nei propri confronti.
    In quel caso dovette ammettere di essere lieto che Libra avesse accettato il suo gesto. Fu per questo che, quando lei afferrò la sua mano, lui la strinse, sollevandola per aiutarla ad alzarsi.
    Da quel silenzio Cain capì che la compagna aveva afferrato il concetto, e che, al contrario, non aveva preso il suo atto d'aiuto come un "ti sto dando una mano perché, ai miei occhi, sei più debole". Non avrebbe mai potuto pensare a una cosa del genere, il mercenario. Non era tipo da giudicare le persone, lui. Prima di farsi una determinata opinione su qualcuno, lo studiava attentamente, osservava i suoi gesti e esaminava le reazioni in determinate situazioni, a quel punto, sì, si faceva un idea, esponendola nel modo più imparziale possibile. Giudicare una persona dall'aspetto o dal primo impatto a suo parere era piuttosto sciocco.
    Tornando a noi, Cain si avviò verso la scrivania, seguendo il consiglio di Libra. "Facile a dire occupati della scrivania", pensò una volta posizionatosi lì davanti: non era più una scrivania, bensì un ammasso di fogli scribacchiati e accartocciati. Si mise il cuore in pace però, dopotutto dovevano lavorare insieme, o perlomeno provarci, e mettersi a ribattere su una cosa del genere sarebbe stato davvero superficiale. Perciò il mercenario ingoiò il rospo e cominciò a cercare, esaminando un foglio dopo l'altro, gli occhi color cobalto ridotti a due fessure per esaminare al meglio il contenuto scritto dei documenti.
    Andò avanti così per un tempo che, a Cain, parve infinito, fino a quando, ad un certo punto, dal fondo di quel cumulo di fogli apparve una superfice colorata, un colore indistinguibile dato il buio della stanza. Il mercenario, curioso, liberò l'area in esame dai fogli, lasciandone cadere una gran parte al suolo, sollevando poi all'altezza del petto ciò che sembrava una cartellina.
    « Libra. », fece, lo sguardo dal taglio duro fisso sulla copertina, quasi a voler cercare un titolo, o comunque qualcosa che avrebbe potuto avvantaggiarli con la ricerca.
    « Ho trovato qualcosa. », almeno così sperava.
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    Ispezionare quella libreria si stava rivelando un'impresa. L'illuminazione era decisamente scarsa, dato che le persiane ad un certo punto si bloccavano, lasciando entrare poca luce. La luna poi era dalla parte opposta, e quegli sgangherati pali della luce non erano comparabili: l'effetto era decisamente diverso, la luce era più fioca. Si era abituata al buio, ma per leggere l'interno delle schede ci mise più del previsto. Quella libreria non era piena come quell'altra che avevano trovato nella prima stanza, ma c'era comunque un lavoraccio da fare.
    Scartò molti documenti che non le interessavano: li sfogliava velocemente, leggendo qualche riga qua e là, e poi li riponeva al loro posto. Probabilmente si stava facendo prendere dalla fretta, ma avevano fin troppo tempo. Dovevano ancora uccidere Douglas, e ormai era da un po' che erano in casa.
    Il suo sguardo si fermò proprio su una firma a fine pagina, una D e una S molto grandi, scritte in corsivo. A proposito, ma Douglas? Possibile che nessuno si fosse accorto di loro? Diciamocelo, avevano fatto un caos infernale per essere degli assassini, e non avevano incontrato anima viva pronta a consegnarli alla polizia. Escluse a priori l'opzione "sonno davvero molto pesante": era logicamente impossibile. La casa quindi era vuota?
    Chiuse la cartella con uno schiocco, ammassandola vicino ad altri documenti con noncuranza. No, no, no, non stava accadendo davvero. Doveva essere in casa. Per forza. Dovevano ammazzarlo quella notte stessa.
    I suoi pensieri vennero interrotti dalla voce di Cain, che sussurrò il suo nome. La mutaforma tese l'orecchio, ma continuò a leggere ciò che aveva in mano, che alla fine si rivelò essere un contratto di assunzione datato quattro anni prima. Quando il compagno aggiunse che probabilmente avevano trovato qualcosa, Altayr lasciò sulla mensola la scheda che aveva in mano e lo affiancò. Si sentì di nuovo uno scricciolo a confronto, e il fatto che Cain tenesse la cartella all'altezza del suo petto non aiutava. Gli fece cenno di abbassarla leggermente e vi sbirciò, analizzandone l'interno con occhio critico. Non c'erano molti documenti dentro, quindi prese il primo foglio in cima alla lista e si avvicinò al fascio di luce. Quando finì di leggerlo, sorrise trionfante.
    « Bingo. » fece, in direzione del compagno e ritornando verso di lui. Ripose il foglio nella cartellina e diede uno sguardo agli altri con l'aiuto del mercenario.
    Non stette tanto ad analizzarne il contenuto, non le interessava e non la riguardava. Doveva solo fare il suo lavoro. Il nome del datore di lavoro che spiccava in ogni pagina insieme a qualche termine specifico come "avvocato" o "sentenza" bastava per capire che era quello che stavano cercando.
    « Ora si passa alla fase due. » disse, stringendo le dita intorno all'arco e sfiorando l'elsa del pugnale con la mano libera. Sperava solo di sbagliarsi riguardo l'assenza del loro obiettivo, né lei né il datore l'avrebbero sopportato.

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    Cain non era eccitato esattamente quanto Libra per aver svolto la prima parte della missione. Certo ciò significava che il mercenario e la cacciatrice erano vicini al dirsi "addio" una volta per tutte, ma per quanto la cosa fosse allettante una strana sensazione imponeva, a Cain, di stare con i piedi per terra, a non montarsi la testa prima di aver trapassato da parte a parte il corpo di Douglas con la propria arma.
    Prese i documenti che incriminavano il datore e li piegò in più parti, infilandoli in tasca. Fatto ciò sistemò lo spadone sulla spalla, avviandosi verso l'ultima stanza da visitare. Nonostante qualcosa dentro gli urlasse che tutti i loro sforzi non sarebbero serviti, il mercenario si premurò di fare più silenzio possibile, cercando persino di attutire il rumore dei propri passi pesanti. Punta, tacco, punta, tacco, così camminò fino a raggiungere la stanza seguente che trovarono, stranamente, con la porta spalancata. Un brivido gelido percorse la schiena di Cain mentre i suoi occhi color cobalto esaminavano la porta. Ricordava di averla vista socchiusa prima, eppure adesso era aperta, mostrando una camera avvolta da un tenue, argentato bagliore lunare.
    Prima che potesse dire nulla, magari chiedere a Libra se fosse stata lei a lasciarla aperta, l'attenzione del mercenario venne attratta da una figura avvolta tra le coperte. La forma delineata sulla trapunta pareva in tutto e per tutto quella di una persona rannicchiata; Cain pensò che forse non tutto era perduto, avevano ancora la possibilità di completarla, la missione.
    Volse il capo verso Libra, portandosi un dito alle labbra come a voler dire "fai silenzio", per poi andare avanti per primo, avvicinandosi lentamente al letto. In quel momento aveva l'impressione di stare sbagliando tutto: sentiva gli scricchiolii prodotti dai suoi passi, il rumore del suo respiro leggermente ansante, il suo cuore palpitare e persino la lama dell'arma stridere contro la superficie metallica del copri spalla. Tutto sembrava produrre suoni indesiderati in quel momento, e la paura di fallire la missione, per quanto Cain, la paura, sapesse a malapena cosa fosse, si faceva istante dopo istante sempre più palpabile.
    Allungò la mano, la tensione nell'aria ormai tangibile. Si accorse solo dopo, osservandolo, che il suo arto tremava leggermente. A quel punto il mercenario decise di togliere il dente in modo veloce e indolore, senza ulteriore esitazione: afferrò le coperte, lanciandole a lato con un movimento repentino, andando poi a portare rapidamente entrambe le mani sull'elsa, pronto ad attaccare. Mentre la coperta cadeva al suolo gli occhi di Cain si sbarrarono in un espressione di delusa sorpresa. Ciò che fino a quel momento avevano creduto fosse Douglas in realtà non era che il lenzuolo raggomitolato nel formare una figura ricurva e allungata.
    Cain si sentì inspiegabilmente ferito. In un improvviso impeto di rabbia, prese il guanciale sul suo lato del letto matrimoniale, buttandolo ai piedi in uno scatto furioso. Fortuna che aveva risparmiato i soprammobili sul comodino.
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    Nei pochi passi che dividevano i due ragazzi dall'ultima stanza, la camera di Douglas per forza di cose, le dita di Altayr ticchettarono sull'arco ininterrottamente: la tensione era palpabile così come l'adrenalina che le scorreva in corpo. Era venuto il momento: passato quello, se ne sarebbero tornati entrambi a casa con il bottino in tasca e tanti saluti. Non se lo sarebbe più dovuto sorbire, nonostante non avessero più battibeccato da quando la missione era effettivamente cominciata. Almeno aveva scoperto che lavorare con lui era fattibile, nonostante le gaffe. Aveva fatto una figura ben poco professionale, ma tutta la faccenda stava finalmente per finire. Dovevano solo tagliare la gola di quell'uomo o piantargli una freccia nel petto. Una questione di pochi secondi.
    Cain aprì la porta della camera, ma non riusciva a vedere oltre le sue spalle. Non fece caso al suo gesto per intimarle di fare silenzio e avanzò insieme a lui verso il letto. Sopra, vi era raggomitolata una figura, interamente coperta dal lenzuolo. Tese piano la corda dell'arco, puntando la freccia verso quella che identificò come la testa. Annullò ogni emozione, il braccio fermo e in tensione: non dovevano sbagliare, o avrebbero causato un putiferio. Bastava un colpo, non c'era nessun margine di errore. Svuotò la testa dai pensieri, limitandosi all'azione, lo sguardo puntato sull'obiettivo.
    Il mercenario tolse con un colpo secco la coperta, buttandola a terra, e per poco non le partì la freccia, che si sarebbe conficcata nel materasso. Non c'era nessuno, sul letto. Si erano fatti ingannare. Altayr aggrottò le sopracciglia, la frustrazione che cominciava a impossessarsi di lei. Il ragazzo buttò a terra il guanciale del letto, palesemente arrabbiato. La cacciatrice si guardò intorno, ma in quella stanza buia erano le uniche persone presenti.
    « Non può essere vero. » sussurrò, lasciandosi sfuggire un pensiero a voce alta. I suoi occhi tornarono sul letto, lo sguardo perso nelle pieghe del lenzuolo. Avevano fallito. La parola 'sconfitta' non esisteva però nel vocabolario della giovane cacciatrice. Strinse i pugni. Ecco perché nessuno li aveva ancora colti in flagrante nonostante tutto il rumore. Douglas non era mai stato in casa, non avrebbero portato a termine la missione fin dal principio.
    Si morse il labbro e, presa dalla rabbia, scaraventò dal comodino un abat jour e un portagioie, che cadendo coprirono le imprecazioni poco eleganti della ragazza.
    « Questo è troppo. » fece. Sentiva il petto pieno di rabbia, si sarebbe dovuta trattenere per non distruggere moltitudini di soprammobili. « Direi di andarcene e fare rapporto, a questo punto. »
    La questione non era chiusa e sarebbero dovuti tornare. Fantastico. Chissà poi il datore come l'avrebbe presa, aveva bisogno di soldi. Ma a parte il datore, lì quella delusa era lei. Era lei che non accettava la sconfitta e il fallimento. Era qualcosa di personale e non riusciva ad accettarlo.
    Si mosse verso l'uscita della stanza, percorrendo a grandi passi il corridoio. Era passata sopra il fatto che la sua ultima frase diretta a Cain suonava più come una richiesta di assenso, magari la pensava in un altro modo, ma la rabbia aveva preso il sopravvento. Calcò i passi sul pavimento, facendo volutamente rumore, per poi fermarsi alla porta d'ingresso, ancora socchiusa. Si guardò indietro, aspettando che il mercenario la raggiungesse.

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    Se la loro missione fosse stata "distruggete la casa di Douglas", beh, quella l'avrebbero portata a termine, e anche molto volentieri. Soprattutto dopo l'ultima scoperta che, per entrambi, si era rivelata uno smacco piuttosto pesante. Per quanto Cain ci avesse provato, a trattenersi, uno scatto d'ira gli era uscito da dentro, imponendogli di scaraventare a terra un guanciale. Fu gesto rabbioso, accompagnato un imprecazione liberatoria. Se solo avesse potuto avrebbe sfondato la parete con un pugno, ma non era il caso di danneggiare casa di Douglas più di quanto già non avessero fatto. Ogni danno che provocavano con i loro gesti impulsivi equivaleva ad un traccia in più per incriminarli. Fu per questo che, quando Libra scaraventò a terra un soprammobile, causando un'inevitabile pioggia di gioielli e bigiotteria, Cain le lanciò un'occhiata di sbieco. Certo non poteva biasimarla, anche lui quando gli partiva la vena furiosa faticava a sedare gli istinti irruenti, ma in quel caso, cavolo, avrebbe potuto scegliere un altro oggetto o quantomeno qualcosa che non si distruggesse in mille pezzi. Non disse nulla comunque, data la situazione psicologica in cui si trovavano entrambi, non era il caso. Avrebbero finito per azzuffarsi e basta.
    Si ritrovò ad essere d'accordo con le parole di Libra, avrebbe proposto lui stesso di tornare dal datore a fare rapporto. La precedette fuori dalla porta, infilando la pesante arma all'interno del fodero e incamminandosi. Li aspettava un cammino di almeno mezz'ora prima di raggiungere il luogo di incontro, e già Cain immaginava la reazione del datore alla notizia che la missione era fallita. Con la "F" maiuscola, oserei dire.
    Sollevò gli occhi color cobalto verso il cielo, osservando la grande luna che li seguiva placida. Individuò l'Orsa Maggiore e la stella Polare, utilizzando un vecchio metodo che gli era stato insegnato durante l'infanzia per determinare l'ora. Prolungò nella sua mente un lato del Grande Carro verso una zona piuttosto buia e senza stelle nell'orizzonte, riuscendo a estrapolare un orario approssimativo. Era un criterio piuttosto complicato, e per quanto il mercenario, per anni, ne avesse fatto uso, poco spesso riusciva ad azzeccare l'ora esatta. Comunque, giudicando la posizione della costellazione e della stella Polare, dovevano essere all'incirca le 3 di notte.
    Una sensazione particolare attanagliava il petto di Cain in quel momento. Oltre all'amara delusione dovuta all'incarico incompiuto, il petto del mercenario era un tumulto di emozioni contrastanti, in particolare percepiva una strana inquietudine. Non poteva fare a meno di osservarsi attorno, vigile, con la conturbante sensazione di essere "osservato". Proseguì il suo cammino a testa alta, senza guardarsi mai alle spalle, con la mano stretta attorno all'elsa della spada, pronto ad entrarla in caso di necessità. Non era tipo, lui, di spaventarsi per certe cose. Avrebbe proseguito per la sua strada e quel presentimento sarebbe rimasto tale.
    Ad un tratto un fischio. Cain vide un dardo sfiorargli letteralmente il naso, finendo per conficcarsi a terra, vicino al piede della compagna. Due uomini vestiti di scuro comparvero davanti a loro, sbucando da una strada secondaria, mentre un altro, dall'alto di un tetto basso, li puntava con una balestra.
    « Libra, mano alla spada! », la esortò, le sopracciglia corrucciate. Ovviamente con ciò intendeva "prendi il tuo arco", anche se, comunque, aveva notato il pugnale che pendeva a lato del pantalone della compagna.
    « Sembra che abbiamo visite. », continuò, estraendo l'arma con un sibilo minaccioso e puntandola davanti a se.
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    Solamente lungo la via del ritorno, la cacciatrice riuscì a placare il fuoco che inondava il suo petto. Placare era un'esagerazione, diciamo che si era rimpicciolito un poco. Ora riusciva più o meno a ragionare con lucidità, il suo passo si era fatto meno veloce e rabbioso.
    Aveva combinato un disastro. Professionalità meno di zero, quella notte. Per non parlare dell'ultima sfuriata, facendo cadere e rompendo i soprammobili del comodino. Aveva lasciato dei chiari segni della loro presenza. Altayr camminava a testa bassa, vicino al muro, al contrario del mercenario che aveva alzato lo sguardo al cielo. Si sentiva così stupida, il suo essere impulsiva aveva preso il sopravvento quella notte. Le era capitato solamente nelle prime missioni, quando era una cacciatrice inesperta: a casa di una sua distrazione, infatti, si era procurata anche la cicatrice che le attraversava il fianco. Ora che però sapeva come funzionava, non poteva permettersi uscite del genere.
    Cain era riuscito più o meno a contenersi nella parte finale della missione, Altayr invece si era fatta sopraffare dalla rabbia, e inutile dire che aveva fatto una pessima figura. Alzò il capo lievemente, giusto per scorgere il ragazzo alla sua sinistra. Sembrava quasi turbato, magari stava pensando anche lui le stesse cose. La mutaforma aggrottò le sopracciglia, puntando lo sguardo davanti a sé. Il datore era stato chiaro, voleva la testa dell'uomo prima che fosse sorto il sole. Si sarebbero dovuti incontrare a casa di lui a fine incarico, non sarebbe stato assolutamente contento di vederli tornare a mani vuote. Se prima era arrabbiata con il mondo e con Cain, ora lo era con sé stessa e la sua irragionevolezza.
    Non er una notte tranquilla, quella: Ta Nulli era in fermento. O meglio, sentiva del movimento proprio dietro di lei. Buttò uno sguardo alle sue spalle, ma non vide nulla se non la strada vuota. Appena tornò a guardare di fronte a sé, un fastidioso fischio raggiunse le sue orecchie e, contemporaneamente, un dardo si conficcò per terra a pochi millimetri dal suo piede sinistro. Prese in un lampo l'arco, fissato sulla schiena, e incoccò una freccia. Un paio di uomini, avvolti nell'ombra, si materializzarono davanti a loro, e un altro a tenerli a bada dall'alto di un tetto.
    Cain estrasse la sua spada, e Altayr non poté che sospirare pesantemente in risposta. « Avevo giusto voglia di sfogarmi un po'. » un lieve sorriso le si disegnò in viso, ma non di certo di cortesia. Quell'attacco improvviso non ci voleva. Facevano parte della malavita della città? O erano dei combattenti più esperti?
    Una delle due figure, quella trasversale a lei, scattò verso di loro e Altayr fu rapida a tirargli una freccia. Lo beccò al polpaccio, ma riuscì comunque a raggiungerla. La ragazza fece una capriola laterale per evitarlo, e quando alzò lo sguardo, notò che si era tolto la freccia e la sua spada, più sottile di quella di Cain, riluceva sotto la luce della luna. Contro un'arma del genere, decise di issarsi di nuovo l'arco sulla schiena e passare al pugnale. Il ragazzo l'attaccò di nuovo, stavolta a spada tratta. Altayr si difese con il pugnale, facendo scorrere l'arma dell'avversario su tutta la lunghezza della sua, allontanandolo con un calcio. Non gli diede il tempo di riacquistare l'equilibrio, che subito un secondo calcio allo stomaco, più forte del primo, lo bloccò a terra. Fece per colpirlo con il pugnale, quando fu costretta ad allontanarsi a causa di un suo improvviso attacco con la spada. Riuscì ad evitare anche gli attacchi che seguirono, ma quando prese ad attaccare le gambe fu un problema. Erano piccoli graffi quelli che gli stava causando, ma non riusciva a schivarli granché bene a causa della lunghezza dell'arma. Il pugnale si rivelò poco utile da questo punto di vista, e decise quindi di ricorrere alle mani. All'ennesimo attacco, che le causò l'ennesima ferita, afferrò con un movimento veloce il polso che teneva la spada, e glielo torse. Un urlo di lamento si levò dalle labbra del ragazzo, e con l'elsa del pugnale lo colpì alla guancia un paio di volte, mettendoci forza. Al terzo colpo, lasciò la presa e fece sì che l'impatto fosse più potente dei precedenti. Il ragazzo barcollò, riuscendo a bloccare però l'attacco che seguì da parte di Altayr, che cercò di colpirlo con la lama.
    Non erano ladruncoli, erano sicari. Era una tecnica di combattimento precisa e schematica: sapeva dove colpire e come prenderla alla sprovvista. La ragazza fece una capriola all'indietro, allontanandosi in fretta.
    Dovevano concludere in fretta, erano in minoranza rispetto a loro e no, non sarebbe morta a fianco di un mercenario antipatico.
    Non sarebbe morta e basta.

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    E quelli adesso che diavolo volevano? Dal modo in cui accolsero i due combattenti sicuramente non erano mossi da buone intenzioni: ci mancò poco che quello in alto tranciasse via di netto il naso di Cain, causandogli un inevitabile cicatrice. Fortuna volle però, che la mira del sicario con la balestra non fosse delle migliori, mancando il viso del mercenario di pochi millimetri: Cain giurò di aver sentito lo spostamento d'aria sul volto.
    Ciò che accadde subito dopo gli fece raggelare il sangue nelle vene, al mercenario. Due uomini vestiti di scuro, il capo quasi completamente coperto, comparvero da dietro l'angolo di una strada secondaria, correndogli incontro con passo rapido, le armi sguainate. La situazione stava facendosi critica: il mercenario osservò da lontano i movimenti degli aggressori, notando che la loro agilità era nettamente superiore alla sua. La cosa, per quanto fosse abituato ad affrontare tutte le situazioni istintivamente, senza pensarci, lo preoccupò, ma non tanto quanto accadde subito dopo. Mentre stava preparandosi ad intercettare un fendente dall'alto percepì il suono di passi alle sue spalle. Erano veloci, sembrava che qualcuno lo stesse raggiungendo di corsa, probabilmente con l'intenzione di colpirlo alle spalle. Per quanto fosse un'azione deplorevole il mercenario si ritrovò a pensare che fosse anche una scelta intelligente: avevano pensato, giustamente, di abbattere prima la preda più pericolosa, o che almeno a prima vista poteva sembrarlo, e per farlo, data la indubbia mole di Cain, non potevano che agire in gruppo. In singolo il mercenario avrebbe potuto contrastarli più facilmente, ma quando si agiva in più persone e si metteva l'avversario con le spalle al muro, beh, al 99% delle situazioni il nemico era spacciato. Fu proprio per questo che Cain agì d'istinto, cercando di non farsi prendere alla sprovvista: bloccò a mezz'aria il pugnale del sicario davanti a sè, sentendo che i passi alle sue spalle, secondo dopo secondo, si facevano sempre più vicini. Doveva agire, subito! Colpì l'avversario con un potente calcio nell'addome, allontanandolo, per poi muovere velocemente Ragnell in un fendente trasversale, ruotando il busto in modo da coprire una zona più ampia, comprendente anche quella alle sue spalle. L'attacco andò a segno: il torace dell'assassino venne squarciato da un ampio taglio, probabilmente non troppo profondo, ma doloroso abbastanza da tenerlo occupato qualche secondo.
    Di nuovo, un sibilo. Un dardo sfiorò il braccio muscoloso di Cain, lacerandogli una manica e ferendolo.
    « L'arciere! », tuonò in direzione di Libra. Lui non poteva occuparsene, se avesse cercato di raggiungerlo sarebbe stato più il tempo di salire sul tetto che altro, e si sarebbe rivelato facile preda per gli assassini che gli stavano alle costole.
    Per quanto gli dolesse, in quel momento dipendeva anche dall'arco della compagna.
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    Ad essere sinceri, Altayr non sapeva se fosse peggio un attacco a sorpresa da parte di sicari o sorbirsi le lamentele del datore di lavoro di turno. Li avrebbe messi allo stesso livello, probabilmente. Quella notte, però, se li sarebbe beccati entrambi, prima l'attacco e poi la ramanzina.
    Il sicario contro cui stava combattendo era un osso duro. Era munito di una spada e per lui era più facile colpirla e ferirla. Altayr al momento aveva a disposizione l'arco, in quel contesto inutilizzabile, e il pugnale: era difficile spezzare la sua guardia e colpirlo, ma uno scontro a mani nude sarebbe stato rischioso per lei. Doveva riuscire a disarmarlo, altrimenti sarebbe stato complicato uscire da quella situazione. Aspettò che l'avversario caricasse, i muscoli in tensione. L'affondo arrivò come previsto, e la ragazza scartò di lato. Direzionò il pugnale verso il suo visto, pronto ad affondare la lama nella carne, ma riuscì a fargli solamente un taglio lungo la guancia sinistra. L'assassino aveva girato la testa per non farsi colpire in pieno. D'altro canto, non sarebbe riuscita a puntare a nessun'altra parte del corpo visto che si era allontanato da lei. Prese un gran respiro, per poi prendere l'iniziativa: si diresse verso di lui, senza lasciargli nemmeno il tempo di pulire il sangue che cominciava a sgorgare dalla ferita. Lo attaccò frontalmente, e l'avversario bloccò velocemente il pugnale con la sua spada. C'era da aspettarselo.
    La voce di Cain la riportò con i piedi per terra: giusto, c'era anche lui lì con lei. Si era rintanata in una dimensione parallela, dove non esisteva nient'altro se non lei e il sicario che stava affrontando. Lo sguardo volò verso l'alto, fino ad incontrare la figura scura dell'uomo armato di balestra. A quanto pare, gli stava dando problemi. Doveva occuparsene lei.
    Altayr strinse i denti e lasciò andare la presa: l'avversario venne in avanti, con la sua spada, e la ragazza fece un veloce balzo all'indietro, in modo da non essere né così vicina da essere colpita né così lontana da non poter contrattaccare. La ragazza piazzò un calcio sulla faccia dell'uomo, sbilanciato in avanti, mandandolo al tappeto poco lontano da lei. Aveva poco tempo, non sarebbe rimasto immobile per tanto. Attaccò il pugnale alla cintura e prese l'arco, avvicinandosi all'obiettivo. Non sarebbe riuscita a salire sul tetto, doveva riuscirci dal basso. Era abituata a prendere la mira in pochi secondi: la corda tesa, il corpo della freccia che sfiorava le labbra. La scoccò, e subito seguì un urlo: l'uomo si accasciò, la freccia conficcata in fronte. Altayr sorrise soddisfatta, afferrando un'altra freccia e puntandola in direzione dell'uomo. Le gambe le bruciavano, dai tagli più profondi sgorgava una considerevole quantità di sangue. Magari abbattendolo con le frecce avrebbe evitato molti movimenti e di conseguenza il peggioramento delle sue condizioni.

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    Meno uno. Libra scoccò una freccia che si conficcò dritta in mezzo alla fronte dell'assassino, che cadde rumorosamente giù dal tetto.
    Una preoccupazione in meno, meglio così. Se ne sarebbe occupato lui, ma in quelle condizioni, minacciato da due fronti, non poteva fare altro che combattere per liberarsi degli scocciatori che aveva attorno.
    Tranciare il petto di un sicario con un fendente era stata un ottima mossa: l'uomo era rimasto a terra, lamentandosi, una mano premuta sul taglio aperto e grondante. Sarebbe rimasto K.O. per un po', giusto il tempo, pensò Cain, di togliere di mezzo l'altro esecutore. Ma le cose non andarono esattamente come il mercenario pensava; infatti colpire l'assassino che continuava a dargli addosso cominciava a diventare una vera e propria sfida: si muoveva con estrema rapidità, lacerando l'aria con continui, fulminei fendenti. Sembrava non voler dargli tregua, a Cain, neanche il tempo di scostarsi che già l'avversario era pronto a menare un altro colpo. Per quanto il mercenario facesse del suo meglio per intercettare ed evitare il pugnale, diverse volte si ritrovò ad essere colpito: svariati tagli solcavano gli viso, per non parlare poi della blusa ed il paraseno in cuoio, entrambi ormai ridotti a un colabrodo. Si trovava in una situazione piuttosto ostica: l'assassino continuava ad attaccare, rapido come una macchina, neanche gli servisse il tempo di prendere fiato, la lama dell'arma nemica che risplendeva con tenui bagliori sotto la luce lunare. Quando i riflessi del mercenario cominciarono a perdere colpi, lasciando penetrare la guardia da un colpo che, per poco, non andò a segno, Cain capì che era arrivato il momento di reagire: se avesse continuato di questo passo prima o poi, come minimo, si sarebbe ritrovato un coltello conficcato da qualche parte, e non poteva permetterselo. Doveva rimanere in vita, non poteva abbandonare la propria partner, non nel momento del bisogno. Per quanto continuasse a vederla come una rompiscatole senza pari e, sotto sotto, non vedesse l'ora di togliersela dai piedi, in quel momento, per Cain, Libra era una compagna di missione. Dire che nei suoi confronti provasse cieca fiducia era sbagliato: la conosceva appena, e per quanto fino a quel momento la ragazza avesse dimostrato di meritare la stima del mercenario, era troppo presto per giudicarla. In passato era stato pugnalato alle spalle fin troppe volte Cain, ed ora, prima di riporre piena fiducia in una persona, che fosse un amico o un collega di lavoro, ci pensava almeno cento volte. Aveva imparato, col passare del tempo, a cavarsela da solo e a non dipendere mai da nessuno nella vita: perché anche la tua ombra ti abbandona quando sei al buio.
    Il mercenario studiò i movimenti dell'avversario, notando, a un certo punto, che i suoi colpi seguivano uno schema ben preciso: se fosse riuscito a precederlo in una pausa tra un fendente e l'altro, probabilmente sarebbe riuscito a rompergli la guardia, e quindi finalmente colpirlo. Aveva solo un colpo a disposizione, certo se avesse fallito avrebbe potuto riprovare, ma le sue mosse, a quel punto, sarebbero diventate prevedibili.
    Quando l'ennesima volta la punta del pugnale ferì il petto del mercenario, causandogli un taglio pressoché irrilevante, Cain partì all'attacco, sfruttando la guarda scoperta dell'avversario. Per un attimo fu sicuro di fallire: il pugnale intercettò Ragnell, con l'intenzione di bloccarla e al contempo direzionare il colpo da un alza parte, ma la forza esercitata dal mercenario fu maggiore al punto tale da vincere quella dell'avversario. Lo spadone a due mani penetrò il corpo del nemico, trapassandolo da parte a parte, e Cain, guardandolo negli occhi vide la luce della vita sfumare, lentamente, fino a spegnersi per sempre.
    Sfilò la spada dal corpo del nemico, e, poggiando una mano sulla sua schiena, lo adagiò a terra. Si chinò e ne chiuse gli occhi con un movimento lento, vedendo che il suo viso, gradualmente, perdeva colore, sbiancando come una pietra, un rivolo di sangue che colava lento dal lato destro del suo labbro. Era stato un valido avversario, nonostante tutto.
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    Quella situazione cominciava a starle stretta, e si sa che le aquile non si possono mettere in gabbia. Dovevano farla finita una volta per tutte, e alla svelta. Sembrava dello stesso parere il suo avversario, che si avventò su di lei con rabbia, a spada sguainata. Altayr si spostò di lato quando il ragazzo fu a pochi passi da lei, e scoccò velocemente una freccia. Non lo prese in pieno, ma quando il sicario caricò nuovamente vide un graffio all'altezza della spalla destra. Bloccò il fendente sfoderando di nuovo il pugnale, l'arco passò alla mano sinistra. Girò lateralmente ancora una volta, affondando la lama del pugnale nella ferita alla spalla. L'uomo urlò di dolore, e quando la cacciatrice estrasse il pugnale la sua spalla era completamente scarlatta.
    Le varie ferite alle gambe le bruciavano all'inverosimile e la pregavano di smettere, di concedersi una pausa di qualche secondo, ma sapeva che non era possibile. Rimise in fretta l'arco in spalla, e afferrò tra le mani il capo del sicario. Fortunatamente, non si trattava di un gigante come il suo compagno. Gli sbatté fronte al muro e fece per dargli il colpo mortale: la sua idea era quella di ucciderlo conficcando la lama nella nuca, aprendogli così un taglio alla gola, ma la reazione dell'avversario fu veloce e inaspettata.
    Si voltò verso di lei a spada tratta, rimettendosi dritto con la schiena grazie al muro al quale era appoggiato: Altayr non fu abbastanza lesta da non farsi colpire al braccio. L'Aquila strinse le labbra, facendosi scappare un'imprecazione sottovoce. Le era andata bene che non fosse il suo braccio dominante, bensì il sinistro, ma il taglio era abbastanza profondo e aveva già cominciato a sanguinare copiosamente. Scoccò all'assassino uno sguardo di fuoco, e si avventò di lui, fulminea. Sembrava ancora stordito dal colpo alla fronte e dalla ferita alla spalla. Provò con un fendente, che venne bloccato dalla spada dell'avversario.
    Essendo a poca distanza dal suo viso, si specchiò negli occhi color cenere dell'assassino. In addestramento, glielo ripetevano di continuo di non farlo: avrebbe potuto essere invasa dalla pietà e lasciare incompiuto il lavoro, ma a lei non era mai successo. O meglio, durante le prime missioni eccome se le era capitato, ma non era più una novellina ormai.
    In uno scatto, bloccò al muro il polso dell'avversario, piazzando la lama all'interno dell'avambraccio, la mano stretta sull'elsa in modo da non farlo muovere. La spada di lui cadde a terra con un tonfo metallico, e soffocò un grido di dolore. Con la mano libera, la sinistra, estrasse una freccia dal recipiente che aveva fissato alla schiena, ignorando la forte fitta al braccio sanguinante.
    Il sicario, agonizzante, accennò a un sorriso triste e arrendevole. Sapeva cosa lo aspettava. La mutaforma non fece alcun cenno, né la sua espressione severa mutò in qualcosa di più compassionevole. Mantennero gli sguardi puntati l'uno sull'altro: lui stanco e in attesa della morte, lei decisa e colma di rabbia.
    Senza ulteriori indugi, trapassò la gola del sicario con la freccia da parte a parte. Un grido muto si fece strada sulla faccia dell'uomo, e quando Altayr riprese in mano sia il pugnale che la freccia il sicario si accasciò a terra, senza vita, accanto alla sua spada. Non stette ad osservare il corpo più di tanto, voltandosi subito verso Cain. Anche lui aveva concluso la sua battaglia, e a quanto pareva ne aveva sconfitti addirittura due. Non male, davvero.
    Avanzò verso di lui di qualche passo, il pugnale e la freccia sporchi di sangue ancora in mano. Si sentiva debole, stava perdendo un bel po' di sangue. Dentro lo zaino avrebbe dovuto avere un paio di bende, ma non ne era granché sicura. Doveva controllarci. Per fortuna, il mercenario sembrava non essere gravemente ferito. Non erano morti, e si sentì sollevata. Sì, anche per il compagno, stranamente.
    « Non ci voleva proprio. » commentò a bassa voce, per poi prendere lo zaino tra le mani, sperando di trovare qualche bendaggio di fortuna.

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    Una serie di domande presero forma nella mente di Cain. Nonostante fossero a Ta Nulli non era nella normalità che un gruppo malavitosi attaccasse in un modo così accanito. Li conosceva bene, Cain, i personaggi che giravano da quelle parti: molti di loro erano ladruncoli codardi che alla prima difficoltà mollavano tutto; l'importante, per loro, era salvarsi la pellaccia. I sicari che li avevano sorpresi, però, avevano combattuto spingendosi allo stremo, fino a conoscere la morte. Non potevano essere delinquenti qualunque in cerca di qualche pollo da derubare, no, loro dovevano essere stati spinti da una motivazione. Qualcuno doveva averli pagati per togliere la vita a Cain e Libra. Solo il mercenario non riusciva a spiegarsi il perché. Pensò, rivangando il passato, a qualche pezzo grosso al quale poteva aver fatto uno sgarro, ma nulla, non gli venne in mente niente.
    Impegnato com'era a pensare, il mercenario neanche si accorse che Libra aveva proferito parola, commentando la situazione. La ignorò, anche se involontariamente, osservando invece le luci dei lampioni che si riflettevano irregolari sulla lama dorata della spada, mentre col mantello sgualcito andava a strofinarne il piatto, ripulendolo dal sangue.
    Ad un tratto un movimento nel buio, alle spalle della compagna, gli fece tornare in mente un dettaglio. Un dettaglio che, a quanto pareva, aveva del tutto dimenticato: il sicario, quello con il petto squarciato, era ancora vivo. Non fece neanche in tempo a controllare che l'assassino fosse ancora a terra che una figura si materializzò, comparendo dall'oscurità, dietro la schiena di Libra. Stringeva un pungolo dalla lama inspiegabilmente scura, ed il suo viso era solcato da un ghigno contorto in un espressione malefica. Sembrava provare malsano piacere per il gesto che stava per compiere.
    « LE SPALLE! », tuonò Cain, lasciandosi andare ad un azione del tutto impulsiva.
    Abbandonò l'arma e si lanciò in una carica brutale, allontanando Libra di proposito con una spallata. Riuscì ad intercettare ed afferrare quasi all'ultimo il polso del sicario, finendo per competere in un'assurda prova di forza dove l'uno voleva prevalere sull'altro, e Cain, questa volta, ne uscì sconfitto. Un calcio nell'addome mise a dura prova la concentrazione del mercenario, causandogli un'inevitabile riduzione di pressione sulle braccia avversarie. Prima il suono di vesti stracciate, poi un urlo di dolore soffocato a metà. Un bruciore intenso avvampò nella spalla del mercenario seguendo i bordi della ferita causata dal pugnale, per poi spingersi dentro la carne con una lentezza straziante.
    Sentendo la lama protrarsi sempre più a fondo Cain radunò tutte le forze che aveva in corpo per lanciarsi in uno stoico tentativo di contrattacco. Esercitando pressione con le spalle spinse via l'avversario, aiutandosi con un calcio nel basso ventre per facilitare la riuscita del gesto. L'assassino cadde a terra, battendo la testa sul rialzo del marciapiede. Perse coscienza momentaneamente, giusto il tempo che Cain potesse accorgersi che la sua vista, lentamente, stava offuscandosi. La forte infiammazione che prima riguardava solo la zona della spalla stava espandendosi, raggiungendo i muscoli superiori dell'arto.
    Il mercenario portò una mano alla ferita, stringendo il lembo della camicia con forza e digrignando i denti: il dolore era lancinante, più acuto di quello che avrebbe avuto una semplice ferita da penetrazione. La sensazione era la stessa di avere un ferro per marchiare a fuoco premuto sulla carne viva, un supplizio.
    Respirò profondamente, sentendo il cuore palpitare più veloce del normale: ripresa un'attimo di lucidità lo sguardo accigliato del mercenario andò a posarsi sul sicario, a terra. Ringhiò, andandogli addosso e afferrandolo per il colletto della tuta col braccio buono, sollevandolo. Lo spinse contro il muro, sbattendolo con violenza.
    « Chi ti ha mandato? Parla, bastardo! », urlò, stringendo la presa alla base del collo, con tutta l'intenzione di strozzarlo se avesse dato segni di diniego.
    Le condizioni di Cain peggioravano istante dopo istante: per quanto sbattesse le palpebre, sperando in un vano miglioramento, faticava enormemente a distinguere i lineamenti di colui che aveva davanti, per noi parlare poi del fatto che il suo corpo era pervaso da brividi ed il suo viso imperlato di sudore freddo.
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    Altayr ebbe la fortuna di trovare delle bende in fondo allo zaino: erano poche e un po' sgualcite, ma tornata alla base avrebbe potuto medicare meglio le ferite. Per un bendaggio di fortuna andavano più che bene. Cominciò ad arrotolarsela così intorno al taglio sul braccio, che stava rilasciando un'ingente quantità di sangue. Le ferite alle gambe erano numerose, la tuta era ridotta a brandelli nella parte inferiore, ma non erano profonde e molte si erano ormai asciugate: le davano un po' fastidio, ma non necessitavano di cure urgenti.
    Mentre legava la benda, aiutandosi con i denti per stringere il nodo, ebbe il tempo di porsi qualche domanda riguardo l'attacco a sorpresa. Per chi lavoravano? Cosa volevano da loro? Avrebbero dovuto lasciarne in vita almeno uno, invece tutti i sicari contro i quali si erano battuti erano crollati sotto le loro armi. Non avrebbe mai avuto le risposte che cercava. Buttò uno sguardo al mercenario: anche lui sembrava immerso nei suoi pensieri. Cercò di ricordare qualche errore nelle missioni svolte in passato, ma non le sembrava di aver commesso alcuna infrazione: aveva sempre ucciso solo e solamente i suoi obiettivi, non aveva coinvolto nessun esterno. Era impossibile avessero scoperto la sua identità. Erano forse lì per Cain dunque? Non potevano essersi trovati al posto sbagliato al momento sbagliato: coloro che li avevano sorpresi quella notte non erano ladruncoli da quattro soldi, ma sicari addestrati a uccidere e pagati per farlo.
    La benda candida aveva cominciato già a tingersi di rosso. Provò a stringerla ancora, ma farlo da sola era complicato; d'altra parte però, non le andava di certo di chiedere aiuto al compagno. Si sarebbe arrangiata.
    Fece appena in tempo a chiudere lo zaino con un movimento veloce, quando udì Cain gridare nella sua direzione. Altayr, per istinto, cercò subito il pugnale e lo sguainò, ma non riuscì a capire cosa stesse succedendo che il mercenario la colpì con una spallata, facendola rotolare sull'asfalto fino al bordo del marciapiede. La schiena le fece male solo sul momento, e si sbrigò ad alzare la testa, alzando il busto e sedendosi su un tallone, il ginocchio alzato, pronta a scattare: ciò che vide la fece rabbrividire. Dove prima si trovava la ragazza, ora c'era un sicario, che aveva appena conficcato la propria arma nella spalla di Cain. Il compagno riuscì ad allontanarlo, buttandolo senza riguardo lontano da lui. Altayr seguì Cain con lo sguardo alzarsi a fatica, barcollando leggermente per poi riprendere il controllo di sé stesso. La poca illuminazione non aiutava a capire quanto grave fosse la ferita, e la ragazza non si trovava abbastanza vicina per esaminarla.
    L'aveva difesa? Oh, beh, la spallata non gliel'aveva sicuramente rifilata per un tornaconto personale. La cosa era abbastanza evidente, ma stentava a crederci. Non aveva esitato un momento, e si era preso pure una pugnalata al suo posto. Non lo credeva possibile, ma quel ragazzo era molto più che cattiveria e forza bruta. Si era scaraventato sul nemico per proteggerla, e ora sembrava essere in uno stato abbastanza confusionario a causa del taglio infertogli dal pugnale. Altayr percepì il fuoco della rabbia accenderle il petto, e lasciò da parte tutti gli scontri avuti fino a quel momento con il mercenario. Era pur sempre il suo compagno di missione, non riusciva a tollerare il fatto che fosse stato colpito sostituendosi a lei. Strinse le dita attorno all'elsa del pugnale, mentre Cain sbatté contro il muro il sicario gridandogli contro.
    La ragazza si alzò, affiancando il compagno e puntando le iridi smeraldine in quelle scure dello sconosciuto. Sul viso di quest'ultimo si disegnò un sorriso strafottente, che durò ben poco a causa della presa di Cain sul suo collo.
    « Ammazzami, no? Che aspetti? »
    Il pugnale di Altayr si impiantò pericolosamente vicino alla gola del sicario con un rumore metallico.
    « Non immagini quanto voglia farlo. » disse, ferma, avvicinandosi al suo volto. Era sicuramente la meno intimidatoria tra i due, ma il sicario non rise quando udì le sue parole. « Ma ci devi delle spiegazioni. » Doveva riuscire a farlo parlare. Gli interrogatori non erano il suo forte: Altayr preferiva di gran lunga agire, ma dovevano estirpargli delle informazioni che sarebbero potute servire.
    « I nostri datori di lavoro potrebbero non essere molto contenti del ritardo che stiamo accumulando. » continuò, la lama che si avvicinava pian piano al collo dell'uomo. Poteva permettersi di dire qualcosa in più, alla fine lo avrebbe comunque ucciso. Il sicario continuava a guardarla negli occhi, ma non fiatava.
    « Ho poca pazienza. » il tono di voce si abbassò. Stava sprecando fin troppo fiato. « E quest'omaccione meno di me. » disse poi, riferendosi a Cain. Non sembrava essere al massimo della forma, a maggior ragione doveva concludere in fretta.
    « Non so il mio, di datore » disse ad un tratto il sicario, flebilmente. « ma il vostro vi attende all'inferno. »
    Altayr aggrottò le sopracciglia. Era morto, dunque? No, non poteva essere.
    "Merda."
    « E' stata opera vostra? » domandò, tentando di celare la rabbia come meglio poteva. Il sorriso che si allargò sulle labbra del sicario parlò da sé.
    « Chi vi ha mandato? » alzò la voce, senza volerlo. Era pervasa dalla collera che stava tentando di controllare, e non aggiunse altro, conscia del fatto che avrebbe cominciato a gridargli contro. Il pugnale avrebbe anche potuto accidentalmente conficcarsi nella carne morbida del collo se avesse continuato a tentare di farlo parlare. Gli serviva vivo, almeno per un altro po'.

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    Cain ne aveva subite tante di ferite nell'arco della sua vita. Ma quella appena ricevuta era indubbiamente una delle più dolorose. Nonostante le esperienze l'avessero forgiato, permettendogli una buona resistenza alla sofferenza fisica, in quel caso stringere i denti e dimostrare una forte capacità di sopportazione non bastava. Fitte intense e lancinanti gli divoravano la parte superiore del braccio, espandendosi verso il basso assieme alla particolare sensazione di perdita di sensibilità. Non riusciva più a muovere gran parte dell'arto, era come se fosse diventato improvvisamente un'appendice inutile, morta. Per quanto il mercenario non fosse tipo da preoccuparsi, quella cosa lo aveva particolarmente allarmato. Non era normale che accadesse una cosa simile. Neanche la lesione di un tendine, la cosa più grave a cui aveva pensato, avrebbe portato a sintomi del genere.
    Pensò che la scelta migliore fosse investigare, ma come avrebbe potuto farlo se l'assassino si rifiutava, anche davanti a palesi minacce, di collaborare?
    « Siamo sordi, eh? », chiese, gli occhi ridotti a due minacciose fessure.
    Cain non tollerava atteggiamenti del genere. Gli facevano prudere le mani, e in quel caso più di tanto non poteva osare. La vita dell'assassino era in bilico sotto la sua possente presa: solo nello stringere il pugno avrebbe potuto ucciderlo, strappandogli il respiro, o peggio, rompendogli il collo.
    Per quanto fosse tentato doveva tenere a freno quell'istinto primitivo, almeno per un altro po'.
    « Vediamo se dopo questo ci senti di più. », l'esclamazione gli sfuggì spontanea davanti alla sfida silenziosa lanciatagli dal sicario. Sollevò il ginocchio, premendolo contro la ferita aperta dell'assassino: un urlo straziante si levò nella notte, mentre i pantaloni del mercenario si bagnavano, prendendo una colorazione scarlatta.
    « E' stato... - e qui Cain premette ancora più forte - argh! E' stato Douglas! »
    « Vedo che cominciamo a ragionare. »
    Per quanto il mercenario fosse riuscito a togliersi un dubbio, ora, dopo quella risposta, ne era sorto un altro: cosa voleva Douglas da loro? Gli venne spontaneo pensare al documento che portava in tasca: quel foglio doveva essere più importante di quanto immaginava.
    « Cosa lo porta a volerci uccidere? »
    « Ci è stato ordinato di eliminarvi perché siete in possesso di un suo documento. »
    Bingo. Quindi era davvero quel dannato straccio di carta la causa di tutto quel trambusto. Maledizione, se solo il mercenario l'avesse saputo prima non avrebbe mai accettato quella missione. Neanche per tutto l'oro del mondo. Insomma non solo gli toccava fare da balia alla partner, inoltre, come se non bastasse, avevano fallito la missione. E questa volta per davvero. Il datore era stato ucciso, e loro adesso erano in possesso di un foglio che li condannava, almeno secondo le parole del sicario, ad essere perseguitati a vita.
    « Tsk, illusi. », un sussurro sprezzante sorprese il mercenario, alle prese coi propri pensieri e le pungenti fitte alla ferita.
    « Potrete uccidere me e i miei compagni, ma ormai Douglas conosce le vostre identità. », fece il sicario; nonostante la voce affaticata riusciva a parlare col tono sfrontato di uno che non si da ancora per vinto « Da questo momento non avrete più il sonno tranquillo, ve lo garantisco. »
    Quelle parole suonarono alle orecchie di Cain come una minaccia bella e buona. Una fiammata di collera esplose dentro il suo petto, scaturendo in una forte stretta di mano. Si sentì un "crick" ed il sicario soffocò un mezzo gridolino, portando entrambe le braccia su quella del mercenario in un vano tentativo di indebolire il gesto.
    « Un ultima parola prima di raggiungere i tuoi compagni all'inferno? »
    « Sì, sbrigati a dire le tue preghiere. Ti resta poco tempo a disposizione. », la voce roca, quasi priva di fiato.
    Un brivido gelido percorse la schiena di Cain, provocandogli una leggera pelle d'oca.
    « Che stai dicendo? », l'assassino rise, e Cain gli inveì contro, stringendo minacciosamente la presa al suo collo. Alzò il tono, tuonando « Parla! »
    Per qualche istante non ci fu nessuna risposta, solo un sorriso maligno dipinto sulle labbra del sicario. L'uomo avvicinò per quanto poteva il viso a quello di Cain, portandosi accanto al suo orecchio per sussurrare con voce melliflua « Aspetta un po' e ci arriverai da solo, bastardo. »
    In un attimo Cain capì. La lama scura, quei dolori estenuanti che sembravano voler rubargli l'anima. Ora era tutto più chiaro: come minimo doveva essere stato intossicato. Era l'unica spiegazione che legava assieme tutti quei dettagli così particolari.
    Digrignò i denti sentendo l'ennesima fitta perforargli il braccio. Le falangi superiori erano l'unica cosa che riusciva ormai a muovere, tutto il resto non esisteva più.
    In uno spasmo di rabbia il mercenario radunò tutte le forze che aveva in corpo per soffocare l'avversario. In quel momento non gli importava se Libra avesse avuto altre domande da porgergli, un istinto animale dentro di sé gli ordinava di ucciderlo, di vendicarsi per ciò che gli aveva fatto.
    L'ultima cosa che vide il mercenario furono gli occhi dell'assassino, spalancati, che a momenti uscivano fuori dalle orbite, e la bocca aperta, come in cerca di fiato che però non gli sarebbe mai arrivato. Poi di nuovo una nuvola cadde sui suoi occhi, opacizzandogli lo sguardo. A denti stretti sentì il braccio buono cominciare a tremargli, il corpo dell'assassino che intanto si rilassava, avvolto nell'abbraccio della morte. Quando lo sguardo dello sconosciuto finalmente si spense Cain lasciò la presa. Barcollò all'indietro, la spalla pulsante ed il viso imperlato di sudore. Sentiva il fiato pesante, neanche avesse fatto una chissà quale corsa all'ultimo respiro. Quell'ultimo gesto era stato decisamente uno sforzo.
    Si avviò verso il pungolo, caduto poco lontano, vedendosi costretto ad abbandonare la sua andatura fiera e spavalda per rimpiazzarla con un'altra, traballante e incerta. Non fu in grado di chinarsi a terra, se l'avesse fatto sentiva che l'equilibrio l'avrebbe abbandonato, perciò si inginocchiò, afferrando l'elsa del pugnale per osservarne la lama. Nonostante avesse l'oggetto lì, davanti a se, riusciva a malapena a distinguerne i lineamenti ed il colore: la lama era ancora scura, scarlatta nel punto in cui gli era penetrata nella carne, e vista così da vicino emanava un odore particolare. L'avvicinò al naso, vedendosi costretto quasi immediatamente a ritrarsi per l'intenso tanfo acido che emanava.
    « E' avvelenata. », un sussurro, una constatazione, non tanto diretta a Libra, ma a se stesso.
    Dannazione, odiava aver ragione in certi casi.
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    Da quando Cain prese la parola, la cacciatrice non poté fare a meno di ascoltare in silenzio, lo sguardo comunque fisso sul sicario che non sembrava voler sputare fuori una parola. Non allontanò comunque il pugnale, sempre vicino alla gola dell'uomo per ogni evenienza. Non che dubitasse delle abilità del suo compagno, ma abbassare l'arma sarebbe stato insensato e ingenuo, in qualche modo. Senza accorgersene, gli scappò un sorrisetto sadico quando il mercenario piazzò il ginocchio sulla ferita sanguinante del sicario: questi si decise finalmente a confessare, e la risposta fece scomparire l'incurvatura dalle labbra di Altayr. Douglas, il tizio che avrebbero dovuto uccidere quella notte. Aveva saputo che erano stati a casa sua ed erano riusciti a rubare un documento prezioso, e molto probabilmente stava dando loro la caccia proprio per riavere quel foglio di carta. Non lo aveva letto attentamente, ma a quanto pareva era qualcosa di serio e di vitale importanza. Da ciò che poi disse in seguito, sembrava non ci fosse scampo per i due, e la ragazza strinse la presa sull'elsa del pugnale. Ma che razza di missione le era capitata? Santo cielo, non gliene era andata bene una quella notte.
    La sua attenzione fu richiamata dalla mano del mercenario, che stringeva il collo dell'ultimo sicario sopravvissuto ai loro colpi. Risalì con lo sguardo il braccio, e si fermò all'altezza della ferita infertagli a tradimento poco prima. Non aveva affatto una bella cera. Il suo volto era imperlato di sudore freddo, e sembrava stesse sopportando un atroce dolore. Serrò le labbra, tornando ad osservare il sicario che proprio in quel momento pronunciò una frase che non le piacque affatto.
    « Ti resta poco tempo a disposizione. » cercava disperatamente aria, la presa del mercenario si stringeva intorno al suo collo. Cosa voleva dire? Non sembrava essere un avvertimento per entrambi, bensì solamente per Cain. Stette ad osservarlo mentre si avvicinava al viso del compagno, sussurrandogli qualcosa che non arrivò alle sue orecchie. Fu comunque qualcosa che parve adirare il mercenario, che non esitò un attimo a farlo fuori. L'assassino esalò l'ultimo respiro e cadde a terra, non più sostenuto dal braccio di Cain. Non poté non notare la sua andatura barcollante e incerta, e respirava pesantemente.
    « Ehi » fece Altayr, a voce non troppo alta, indecisa sul da farsi. Cosa gli stava accadendo? Forse era dovuto a qualcosa che il sicario gli aveva detto? Si avvicinò di un paio di passi verso di lui, lentamente, mentre analizzava qualcosa in mezzo alla strada. Si portò sopra la sua spalla, riconoscendo l'oggetto: era il pugnale che il sicario aveva utilizzato per ferire Cain. Lo stesso pugnale che avrebbe dovuto tagliare la sua, di carne. Serrò ancora le labbra, ripercorrendo la scena di poco prima, quando il mercenario si era messo in mezzo, evitandogli la pugnalata.
    Un brivido freddo le percorse la schiena quando il compagno aprì bocca, mormorando qualcosa che avrebbe preferito assolutamente non sapere. Un'arma avvelenata.
    "Dannazione!" imprecò mentalmente, buttando uno sguardo a Cain. Ecco spiegato il sudore freddo, l'affanno, i passi incerti. Il veleno lo stava lentamente uccidendo, mandando fuori uso varie parti del suo corpo, e di quel passo sarebbe morto. Lo aveva usato qualche volta anche lei, intingendoci le frecce o il pugnale. Non era uno dei veleni più veloci, ma sicuramente era efficace e uno dei più utilizzati dagli assassini come loro.
    Quel colpo era stato destinato a lei. Doveva esserci Altayr al suo posto, se non fosse stato per lui. L'aveva difesa senza neanche pensarci. Sentì un vago senso di colpa attanagliarle il petto. Era colpa sua, non c'era via di scampo, sua e della sua poca attenzione. Non pensava di poter sentirsi in colpa perfino per quel ragazzo intrattabile, ma era pur sempre il suo compagno di missione - per quanto scontroso, sì, lo era - e le aveva evitato un brutto colpo.
    Di scatto, portò lo zainetto davanti a sé, mettendosi a cercare con foga qualcosa che potesse aiutarlo. Detto con tutta sincerità, non aveva idea di cosa fare: non era lei l'esperta di medicinali e antidoti, non si era mai interessata molto. Le bastava saper fare un nodo stretto ad una benda e via, poi ci pensava chi di dovere una volta alla base.
    « Non ho niente. » mormorò tra sé e sé, richiudendo la zip con un gesto stizzito e veloce. Guardò poi il mercenario, il viso imperlato di sudore. Diamine. Doveva fare qualcosa, e in fretta: il veleno non si sarebbe fermato senza un pronto intervento.
    « Bisogna portarti da qualche parte, e alla svelta. » asserì, il tono fermo e lo sguardo severo. Se avesse cominciato a farsi prendere dall'orgoglio, sarebbe stata la fine. « Conosci qualche posto dove ci si possa medicare? »
    Si alzò in piedi, ma non si allontanò. Non gli avrebbe offerto esplicitamente il suo sostegno: se avesse voluto una mano, gliela avrebbe data senza problemi. In caso contrario, beh, affari suoi. Non lo avrebbe lasciato agonizzante in mezzo alla strada, questo no, ma si sarebbe inventata qualcosa.

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    Cain non si era pentito della scelta che aveva fatto. Non aveva nulla in comune con la compagna, la detestava, ma nonostante ciò nel vedere l'assassino sollevare in alto il pungolo, in procinto di colpirla, qualcosa dentro sé si era mosso. Non avrebbe potuto in nessun modo stare lì a guardare la scena, con le mani in mano, neanche se Libra fosse stata il suo peggior nemico. In ogni caso avrebbe dato la sua vita per salvarla. Perché era giusto così. Pensò che quella sua mentalità un giorno l'avrebbe ucciso, ma almeno sarebbe morto con onore.
    « Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno. », quell'esclamazione gli uscì spontanea dalle labbra, la voce sensibilmente provata ed il fiato pesante. La condizione in cui si trovava il mercenario parlava da sé, smentendo quelle parole dettate non dalla ragione ma bensì da un orgoglio forte come il metallo.
    Anche a costo di strisciare al suolo non si sarebbe mai fatto aiutare. Mantenere la sua posizione difensiva, atteggiandosi da duro nonostante la situazione, era l'unico modo che aveva per non mostrarsi debole. Inferiore a lei. Non voleva lasciare trapelare alcun sentimento, né sensazione. Doveva dimostrare di non avere paura, di essere forte abbastanza per cavarsela da solo.
    « Mi arrangerò, come ho sempre fatto. », fece poi, alzandosi lento dalla precedente posizione. Un giramento di testa lo obbligò ad accostarsi accanto al muro più vicino. La ferita bruciava insistentemente, un dolore intenso. L'arto invece aveva ormai perso tutta la sensibilità. Se prima il mercenario riusciva a muovere le falangi più esterne, adesso non aveva più il controllo di nulla. Il braccio era totalmente andato. Doveva darsi una mossa a trovare una soluzione. Per quanto il veleno agisse lentamente non era il caso di temporeggiare: una volta raggiunto l'apparato respiratorio per Cain sarebbe stata la fine.
    Esalò un profondo respiro, per poi portare lo sguardo davanti a sé. Gli occhi dal taglio duro illuminati da un barlume di determinazione. Non sarebbe morto. Non quel giorno.
    Si alzò, staccandosi dal muro e cominciando a camminare, avviandosi lungo la strada. Si sforzò per quanto poteva di mantenere un atteggiamento fiero, spalle e petto in fuori con fare spavaldo accompagnati da passi decisi; ricacciò al suo interno i dolori, le fitte ed i pensieri negativi ma tutto ciò servì a ben poco. Una decina di metri e la vista cominciò ad annebbiarsi, neanche fosse entrato all'interno di una densa nuvola. Una sensazione di nausea gli attanagliò la bocca dello stomaco ed un nuovo giramento lo sorprese, portandolo a doversi appoggiare ad un palo della luce.
    Inutile fare l'eroe. In quelle condizioni non avrebbe resistito un altro minuto senza rischiare di cadere. Le forze lo stavano abbandonando, era decisamente il caso di mettere da parte l'orgoglio e chiedere aiuto.
    « Conosco un posto in cui trovare l'antidoto. », fece, lanciandole uno sguardo.
    « Ma forse non... », le parole gli morirono in bocca. Per quanto si sforzasse non ce la faceva, ammettere di necessitare la presenza di una persona al suo fianco lo urtava parecchio. Fece una pausa di qualche istante, ritrovandosi a dover abbassare lo sguardo: sostenere quello della compagna gli risultava difficile « ...non posso farcela da solo. »
    Chiederle direttamente “Accompagnami per favore” era troppo per il mercenario. Già pronunciare le parole “Non posso farcela” era stato faticoso; per un attimo gli era passato per la testa l'idea di non dirle nulla e riprovare a camminare, lo avrebbe fatto altre mille volte pur di non ammettere la propria debolezza. Ma sarebbe stata solo una perdita di tempo, e il tempo, in quel momento, era decisamente un lusso che non poteva permettersi. Perciò tolse il dente, in modo rapido e indolore.
    Nonostante la palese richiesta di aiuto Cain avrebbe fatto di tutto per non essere un peso. Avrebbe camminato da solo, senza appoggiarsi alla compagna a meno che lei non gli avesse offerto il proprio sostegno. In tal caso il mercenario avrebbe accettato, un po' restio, certo, ma l'avrebbe fatto. Non era quello il momento di essere capricciosi. Per quanto gli sarebbe scocciato di dover contare su una persona, era l'unico modo che aveva, in quel momento, per salvarsi la pellaccia.
    In caso contrario, se Libra non avesse avuto alcun tipo di atteggiamento “altruista” nei confronti del mercenario, Cain avrebbe proseguito senza proferire parola, appoggiandosi a muri e pali della luce per mantenersi in equilibrio. Arrangiandosi come poteva insomma.
    Raggiunti i confini di Ta Nulli l'orizzonte cominciava a colorarsi di un tenue color arancio: l'alba stava per sorgere. Entrarono all'interno di una foresta, e lì Cain poté finalmente raccattare a terra un bastone che gli avrebbe fatto da sostegno.
    Il bosco era buio, tenui raggi filtravano a malapena dalle fronde degli alberi e in lontananza una casetta di legno, decisamente malmessa e circondata da erbacce. Avvicinandosi si poteva notare che in vari punti era stata “rattoppata” per così dire: il tetto ammuffito presentava assi sporgenti, probabilmente utilizzate per coprire buchi che filtravano l'acqua all'interno, e le pareti esterne erano quasi totalmente ricoperte di un soffice muschio umido. Osservando bene si scorgeva una piccola canna fumaria. Davanti a quell'abitazione che pareva un vecchio fienile inutilizzato si trovava piccola una veranda, il cui corrimano era decisamente trascurato ed eroso dalle intemperie.
    Cain vi entrò, il bastone che ad ogni passo risuonava sul pavimento in legno.
    Nonostante da fuori paresse un ambiente piccolo la quasi totale mancanza di mobilio faceva sembrare il tutto più ampio. Un camino troneggiava nella parete opposta della stanza, il suo interno era completamente nero, sporco di fuliggine: sembravano trascorsi anni, ma che dico, decenni dall'ultima volta che qualcuno l'aveva ripulito dalla brace. Davanti ad esso un grande animale giaceva a terra, beandosi del tenue calore di una fiammella ormai in procinto di spegnersi.
    Il pavimento in legno era coperto da diversi stracci ed indumenti, per non parlare poi delle bottiglie di alcolici -vuote e non- sparse in giro per la stanza. Non che Cain bevesse molto, ma non essendo esattamente una persona ordinata, beh, col tempo la sporcizia si era accumulata, assieme a quel dito di polvere che si sollevava ad ogni spiffero di vento.
    Un filo univa due pareti opposte, e appeso ad esso abiti bagnati gocciolavano al suolo: una macchia di muffa giallastra poteva chiaramente distinguersi sulla superficie lignea al di sotto di essi.
    Appese ai muri vi erano diverse mensole, molte delle quali utilizzate come “appoggia-armatura” o roba simile. Infatti Cain, appena entrato, si liberò del guardacuore in cuoio che gli stringeva il petto, appendendolo al muro e andando a sedersi a terra, su un'ammasso di cenci, alcuni dei quali persino sporchi di sangue. Quello che doveva essere il suo "letto".
    Non invitò Libra ad entrare, certe formalità non facevano per lui. Piuttosto poggiò la testa contro il muro, gli occhi stretti ed il naso leggermente arricciato, come a voler trattenere una smorfia di dolore. Strinse con forza il lembo della camicia sopra la ferita, lasciandosi alle spalle un'altra penetrante fitta.
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    Edited by altäir - 11/11/2016, 18:12
     
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    Ecco, lo immaginava. Quel ragazzo era prevedibile, ci avrebbe scommesso che si sarebbe messo a dire di non aver bisogno d'aiuto. Cain si alzò a fatica, reggendosi sul muro e avanzando appoggiandosi a qualsiasi appiglio trovasse sulla sua strada. Altayr sbuffò, e non fece nulla per nasconderlo, per poi prendere a seguirlo a qualche passo di distanza.
    « Oh, bravo, lasciati pure morire qui. » gli fece, alzando la voce. « E' sicuramente la cosa migliore da fare. » Diavolo, poteva dirne di tutti i colori sul suo conto, ma se non fosse stato per lui ci sarebbe dovuta esserci Altayr ridotta in quelle condizioni. Tentare di aiutarlo era il minimo che potesse fare, non l'avrebbe lasciato al suo destino. Volente o nolente, avrebbe dovuto contare su di lei.
    Non riusciva neppure a reggersi in piedi: perché continuare ad intestardirsi in quel modo? In quel momento, le sembrava qualcosa di stupido e sciocco da fare, ma non aveva pensato al fatto che al posto suo si sarebbe comportata nello stesso identico modo. Le riusciva difficile chiedere aiuto a qualcuno, il suo orgoglio glielo impediva la maggior parte delle volte.
    Dunque, capiva il ragazzo sotto questo punto di vista, ma in una situazione del genere non poteva permettersi di fare lo scorbutico. Dovevano agire per tempo, altrimenti sarebbe stato troppo tardi. E sinceramente aveva già abbastanza vite umane sulla coscienza.
    « Piantala! » gli disse ancora, esasperata, ma il mercenario non la ascoltava. Era concentrato sul dolore, e persino ad occhio nudo si notava il pulsare delle vene sotto la pelle e le gocce di sudore freddo che gli imperlavano la fronte. Andava curato, e il prima possibile, ma a quanto pare non lo aveva ancora capito. Altayr avrebbe potuto lasciarlo lì, a marcire e a imprecare contro le fitte che il veleno gli provocava, in fondo il mercenario non le andava nemmeno tanto a genio. Ma l'aveva salvata da tutto ciò che stava affrontando adesso lui, semplicemente non poteva.
    Percepì una debole risposta da parte di Cain, e d'istinto l'Aquila gli si avvicinò di un paio di passi. Finalmente aveva capito che chiederle aiuto era l'unica scelta, in quel momento. Che credeva, anche lei sarebbe stata più felice se avessero finito la missione quella sera stessa e non avesse più dovuto vedere quel suo bel visino. Ma il fato aveva messo loro i bastoni tra le ruote, ed ora come ora potevano fare affidamento solamente l'uno sull'altra. Dovevano fare squadra, che lo volessero o meno.
    Altayr fece segno a Cain di incamminarsi, stando ben attenta dall'offrirgli un sostegno. Era ben chiaro volesse fare da solo, ma dopo qualche metro la situazione era diventata insostenibile. Cain era in preda ad atroci dolori e barcollava, ogni due passi, verso la parete più vicina per reggersi in piedi.
    La cacciatrice si morse il labbro prima di avvicinarsi al ragazzo. Non disse nulla, le parole sarebbero state solo di troppo. Gli avrebbe fatto capire che, se voleva, avrebbe potuto appoggiarsi a lei. Se non avesse recepito il messaggio, beh, sarebbe rimasta lì in caso di bisogno. Il mercenario, seppur riluttante, dopo qualche minuto accolse la sua silenziosa proposta, e l'Aquila fece del suo meglio per sostenerlo. Era pur sempre un armadio di quasi due metri più muscoli vari, in confronto lei era un ramoscello. In fondo però, era grata che Cain avesse accettato, in qualche modo, il suo aiuto. Era più testardo di un mulo, ma a quanto pareva sapeva più o meno quando era l'ora di finirla di dare ascolto all'orgoglio.
    I due si allontanarono dal centro della città, entrando in un bosco buio. Cain si staccò da lei, trovando per terra un bastone al quale appoggiarsi. Altayr fece roteare una spalla, quella dove si era appoggiato fino a pochi attimi prima il mercenario, e lo seguì tra gli alberi. Dopo un po', incontrarono una catapecchia spoglia e poco curata, e l'interno non era di certo dei migliori. Era forse una casa abbandonata? Sembrava che il ragazzo ci avesse costruito un rifugio temporaneo. L'unico elemento che ricordava in minima parte un'abitazione era il camino, dove bruciava un fuoco molto debole.
    Cain non fece gli onori di casa, pensando subito a medicare la ferita come meglio poteva. L'attenzione della ragazza fu catturata da ciò che sembrava un grande animale appisolato davanti alle braci.
    "Che cos'è?" si chiese, avvicinandosi di pochi passi con fare guardingo. Venne riportata alla realtà da un sibilo del mercenario, e ciò le ricordò che c'era qualcosa di più importante di cui preoccuparsi, effettivamente.
    « Dove posso trovare l'antidoto? » domandò senza troppi preamboli. Si sarebbe dovuta dare una mossa, e sperò che la medicina in questione fosse qualcosa che rientrasse nella sua ben poco ampia cerchia di conoscenze mediche.

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