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Cain x Maeve

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    maeve
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    « Take a minute and revel in it and see how much we’re worth, I’ll fight and defend, I’ll see this out to the end. So follow me, to the ends of the earth »
    Forse allenarsi all'aperto, in pieno pomeriggio, con abiti da uomo raccattati nelle cucine, senza neanche sforzarsi di coprire il viso - assolutamente riconoscibile - non era stata una buona idea. Da anni si esercitava nel retro delle cucine, all'aperto, dove i servi e i camerieri potevano vederla e la salutavano anche: fino ad ora nessuno aveva fatto sapere nulla al re e alla regina del comportamento deplorevole della loro unica figlia, eppure rimaneva sempre un po' all'erta quando decideva di svagarsi un'oretta in compagnia della sua vecchia spada. Forse era il timore di essere scoperta proprio dai genitori che, chissà secondo quale piano astrale, avrebbero potuto passare da quelle parti per puro caso, o per una soffiata da parte di qualche famiglia nobile che avevano contro, tipo i Vanderbilt, che non vedevano l'ora di screditare in qualche modo la famiglia regnante di Thyandul. Niente di tutto ciò l'aveva mai fermata, anche se sapeva i rischi che correva e percepiva sempre un brivido lungo la schiena appena udiva qualche suono estraneo mentre si allenava di nascosto. Provò gli ennesimi affondi, sbuffando e legandosi i capelli di fretta. Sarebbe stato molto più comodo se li avesse avuti corti, ma no, tutte le altre principesse li avevano lunghi fino ai piedi, perché lei doveva essere da meno? Se li era tagliati con la spada appena Dominic era venuto a mancare, causando l'ira di sua madre, ed ora le erano ricresciuti fino a metà schiena. Fare la principessa seguendo le regole era... stancante, e avere una madre pressante che non faceva altro che bacchettarla e ricordarle che un giorno - non troppo lontano a dirla tutta - si sarebbe sposata e avrebbe donato un erede a Thyandul era un bonus di cui avrebbe preferito fare a meno. Non sopportava che questa potesse essere la sua massima aspirazione, lei voleva essere presente per il suo popolo, combattere per il suo regno e guidarlo al pari di qualsiasi altro regnante, guadagnarsi il titolo di regina. Non che non le piacesse fare la principessa: amava la sua gente, la sua terra, amava la sua famiglia, amava la musica che riecheggiava nelle sale del castello, le grandi librerie del palazzo, era nata sotto una buona stella, ma amava anche sporcarsi le mani di fango, impugnare una lancia, andare a cavallo, la comodità di indossare dei pantaloni da uomo, l'adrenalina che la assaliva appena stringeva l'elsa di una spada. Era una principessa e avrebbe tenuto fede ai suoi doveri, ma sentiva che voleva essere un altro tipo di principessa. La regina Violet non faceva altro che ripeterle che doveva prendere esempio dalle due principesse di Estra, il piccolo regno confinante, che incontravano spesso in occasione di ricevimenti e balli. In genere gli eventi mondani non la elettrizzavano, ma almeno Anneliese e Rochelle erano due amiche fidate e, essendo cresciute insieme giocando nei giardini del castello, si stimavano l'un l'altra e scherzavano tra di loro, senza la classica rivalità tra principesse che facevano a gara a chi aveva il vestito più bello e sposava l'erede al trono più ricco. Non le avevano mai fatto pesare il fatto di avere spesso i capelli disordinati, lasciavano correre qualche suo comportamento che non rientrava proprio nel bon ton di corte e ridevano quando la vedevano sdraiarsi sull'erba senza il pensiero di sporcare il vestito. Eppure, nonostante la mancanza di pregiudizi, non se l'era mai sentita di dire la verità a qualcuno all'infuori dei camerieri in cucina. Nessuno doveva saperlo, soprattutto la sua famiglia. Neanche Dominic avrebbe dovuto saperlo, quel segreto l'aveva portato sotto terra. « Gradite un boccone? » una voce gentile la fece sobbalzare e un delizioso profumo attirò la sua attenzione. Dorothy, una delle cameriere che si occupava della colazione dai lunghi capelli biondi, le allungava una grossa fetta di torta appena sfornata, ma la principessa scosse leggermente il capo. « Ti ringrazio Dorothy, ma ho già fatto colazione » rispose cordiale, roteando la lama con la mano e brandendola con entrambe le mani subito dopo. Le sembrava di fare un rumore assordante solamente fendendo l'aria, come se tutti potessero sentirla e scovarla, anche se sapeva che era solo colpa della leggera ma perenne agitazione che la pervadeva ogni volta che si allenava senza fingersi Dawn. Impersonare una popolana qualunque non era affatto male: nessuno le impediva di fare nulla, nessuno le diceva che sarebbe stato meglio starsene al sicuro nella propria dimora - era riuscita a sconfiggere Lance, il soldato novello più forte di tutto il campo, ed era riuscita a guadagnarsi il rispetto dei compagni - e nessuno le ricordava che ciò che faceva era sbagliato e non le si addiceva. Era un soldato tra tanti, ma sapeva che in futuro sarebbe stata a capo dell'esercito di Thyandul. Gli ultimi affondi li fece convinti e con un sorriso trionfante stampato in faccia, prima che un boato proveniente dall'altra parte del castello interrompesse il suo allenamento. Tentò di ignorare tutto quel baccano per quanto le fu possibile, ma dopo un paio di minuti non poté fare a meno di controllare cosa stesse accadendo: si preoccupò di rimanere nascosta dietro qualche barile, riuscendo comunque a sbirciare. Una folla numerosa si avvicinava all'entrata del castello, le guardie reali e molti soldati dell'esercito del re a guidare quella rumorosa comitiva, e notò che questi ultimi trascinavano un figuro ben poco accondiscendente ad entrare nel palazzo. La ragazza non riuscì chiaramente a distinguere i suoi tratti, anche se dal fisico più o meno piazzato poteva dire che si trattava di un uomo, il suo sguardo catturato dalla folla urlante: era gente di Xanturion, riconobbe qualche bottegaio che conosceva tra di essa, e protestavano contro, a quanto pare, l'individuo che le guardie tenevano ben legato. Maeve si schiacciò contro il muro quando i soldati e il tizio misterioso scomparirono alla sua vista, inghiotti dall'imponente portone all'ingresso, le sopracciglia aggrottate e l'espressione confusa. La prima cosa che le venne in mente fu una ribellione in atto, ma le pareva assurdo: Thyandul sotto la guida dei suoi genitori non aveva mai conosciuto grandi guerre o carestie, a meno che non fosse qualche nobile avverso alla famiglia reale a spronare il popolo alla rivolta. Non aveva visto nessuno di alto rango in mezzo a tutta quella gente, solo popolani e guardie, che avevano catturato qualcuno. Un prigioniero, che a quanto pare non stava simpatico a molti. Maeve si infilò all'interno delle cucine, evitando di scontrarsi con la servitù - anch'essa in subbuglio per ciò che era accaduto all'esterno - e dirigendosi di corsa verso la sala del trono. Quel tizio doveva per forza essere sottoposto al giudizio del re prima che gli venisse torto anche un solo capello, quindi avrebbe intercettato la folla in quella stanza, ovviamente senza dare nell'occhio. « Scusa, permesso, ehm... Oh, ciao Theodore! Attenzione, dovrei passare... » più si avvicinava al cuore del castello, più c'era gente che cercava di sbirciare cosa stava accadendo. Si udiva il frastuono perfino dalle dimore della servitù per le quali era sgattaiolata, certa che da quelle parti nessuno l'avrebbe vista. C'erano persone che gridavano, ma non riusciva a capire ciò che stavano dicendo. Sicuramente non si complimentavano con quello sconosciuto che avevano trascinato a Xanturion. A quanto pare, tutti lo conoscevano, tutti tranne la principessa: lei non aveva capito chi fosse, per questo cercava di avvicinarsi il più possibile, per cogliere anche solo un dettaglio che le avrebbe potuto ricordare qualcuno di sua conoscenza. A quanto pare si trattava di un prigioniero di guerra, ma cosa aveva fatto per attirare in quel modo l'odio del suo popolo? Una volta riuscita a sgusciare all'interno dell'enorme e luminosa sala del trono - non dopo essersi beccata un paio di gomitate nello stomaco da parte di tipi particolarmente infervorati - ebbe l'accortezza di nascondersi dietro una colonna alle spalle del trono, che era ancora vuoto, in modo da essere coperta da sguardi indiscreti. Né suo padre né sua madre erano nella stanza, eppure il suo cuore prese a battere davvero troppo veloce, forse avrebbe dovuto pensarci due volte prima di precipitarsi lì per vedere cosa stava succedendo, ma aveva bisogno di sapere e di capire. Si parlava di un nemico del suo paese dopotutto. Si sporse un poco, giusto per intravedere la capigliatura del prigioniero: era un uomo, come aveva giustamente dedotto poco prima, e un lungo mantello rosso gli cadeva fino ai piedi, coperti da pesanti stivali scuri. Sembrava un condottiero, anche se non aveva armi con sé: gli occhi verdi della ragazza si spostò sullo spadone che una guardia al fianco del ragazzo stringeva tra le mani, a quanto pare gli apparteneva e gliel'aveva confiscata. Non doveva essere così gracilino se riusciva a combattere con un'arma del genere. Assottigliò lo sguardo, cercando di intravedere qualcosa di più approfittando della confusione del momento, ma riuscì a cogliere solamente uno sprazzo di un blu vivace prima di schiacciarsi completamente sul marmo freddo della colonna nel momento in cui re Ethelbert fece il suo ingresso trionfante nella sala. Il portone sbatté fragorosamente sulle pareti e il chiasso cessò di colpo, mettendo a tacere tutti i presenti. Nel silenzio si riusciva a udire perfino il fruscio del mantello dell'uomo sul pavimento, e Maeve si rese conto che non stava nemmeno respirando. Suo padre si diresse al centro della sala e si sedette sul trono con una fretta ed un'agitazione che non gli appartenevano, e la ragazza non riusciva a capire quanto la situazione potesse essere grave. Il re di Thyandul era un uomo di grandi valori, ricorreva alle maniere forti solo se strettamente necessario, ed era sempre stato un gentiore presente ai limiti del possibile e comprensivo. Riusciva a percepire la sua rabbia a metri di distanza, senza neanche guardarlo in viso, e il suo stomaco si attorcigliò su sé stesso. Cosa stava succedendo? Chi diavolo era quel tizio misterioso? « Non mi sarei mai aspettato che la prima udienza della giornata fosse con il neo principe di Erethos » la voce bassa del sovrano rimbombò nell'immenso salone dopo vari istanti di quiete. Maeve riusciva a sentire come il padre stesse cercando disperatamente di mantenere la calma, la stessa sensazione che provava anche lei, solo che non era arrabbiata, bensì terrorizzata. Non era mai stata nella stessa stanza con uno dei suoi genitori vestita da garzone, e in più non ricollegava nessun volto al "principe di Erethos". Il precedente monarca di quella regione non aveva figli, e non era a conoscenza che l'uomo che lo aveva sostituito avesse qualche discendente. Non riusciva a capire cosa stesse accadendo alle sue spalle, nella sua testa e fuori da Xanturion. « Di grazia » cominciò il re, sospirando pesantemente, « a cosa dobbiamo la vostra visita a Thyandul? ». Lo sconosciuto non rispose, e nel silenzio tombale della sala del trono la principessa tentò di collegare i suoi molteplici pensieri: Erethos era una regione divisa in due, da una parte i ribelli, dall'altra il nuovo re che governava tutt'altro che mettendosi a disposizione del popolo, bensì servendo unicamente sé stesso e i suoi interessi. Sapeva anche che aveva iniziato ad attaccare i regni confinanti, avanzando pericolosamente verso est, dove avrebbe incontrato i confini di Thyandul. Sapeva che suo padre aveva già mandato il suo esercito a sventare qualsiasi minaccia, stroncando così ogni sua intenzione sul nascere. E poi, di cos'altro era a conoscenza? Che l'Erethos, a quanto pare, aveva un principe, e per chissà quale motivo si trovava al cospetto del re del regno nemico. Perché andare proprio a Thyandul, dove sapeva che non gli avrebbero riservato una calorosa accoglienza? « Oltre ad essere prepotente e assetato di potere, siete anche stupido ». A quella parola si alzarono delle voci, alcuni sogghignarono, ma la voce del ragazzo non si udì. Rimaneva zitto, e non sapeva se intenderlo come una forma di sottomissione o non voler parlare per paura di essere scoperto. Si trovava lì per caso, per attaccare di sorpresa, per incontrare qualcuno? La sua testa era un continuo via vai di ragionamenti senza capo né coda a cui cercava di dare un senso logico, al contrario del suo corpo che non riusciva neanche a muovere. Aveva le mani sudate, e se le sfregò velocemente sui pantaloni, mentre Ethelbert sembrava aver perso definitivamente la calma. « Anche muto, a quanto vedo » la piega che prese il suo tono non le piacque, era irrequieto e impaziente,
    « Una dote che forse dalle vostre parti viene apprezzata, ma non qui al mio cospetto! » Sua maestà batté il pugno sul bracciale del trono, e la principessa deglutì. Aveva le labbra secche, e desiderava sapeva quale fosse il volto di colui che, a quanto pare, era nemico della sua gente. Si sporse leggermente, con le gambe che le tremavano, e nell'immobilità della scena riuscì a dare un volto al neo principe di Erethos. Viso spigoloso, spalle larghe, sguardo accigliato e chioma ribelle di un blu brillante. Non era quello che si aspettava, e quando incrociò le sue iridi color cobalto capì il perché. Aveva già visto quel ragazzo da qualche parte, e la cosa non le portò affatto conforto. Non riuscì a togliergli gli occhi di dosso, studiandolo per capire dove avrebbe mai potuto incontrarlo, se inconsciamente ricordava il suo nome o di averci scambiato quattro chiacchiere. Non ricordava nulla di tutto ciò, ma era sicura di conoscerlo. « Non si tratta di un gioco, conosco a quali tattiche può ricorrere vostro padre, sputate il rospo! » la voce tuonante di re Ethelbert la riportò coi piedi per terra e la fanciulla si rifugiò di nuovo dietro la colonna, l'unico angolo sicuro in quel momento, la testa piena di dubbi e sul punto di scoppiare. Non si preoccupò neanche del fatto che la avesse vista in quello stato, voleva solamente capire come mai il suo viso non le era nuovo. Si passò le mani sul viso, certa che quel dettaglio fosse di cruciale importanza: non lo aveva mai incrociato nei corridoi del castello, neanche in città, di questo ne era sicura. Forse in guerra? Ma erano passati anni dall'ultima volta che aveva vestito i panni del soldato Melvyn. Eppure lui era un guerriero, dove poteva averlo visto se non sul campo di battaglia nel periodo in cui la principessa si presentava sotto il falso nome di un comune soldato? « Avete qualche spia nel mio regno? » domandò il re, senza ricevere però alcuna risposta. Attese alcuni istanti prima di sospirare tra sé e sé e passarsi una mano sul volto stanco.
    « Ammirevole, non sembrate tenere molto alla vostra vita nonostante vi troviate in territorio nemico », il trono scricchiolò quando l'uomo vi fece leva per alzarsi, scendendo le scale per avvicinarsi al prigioniero. « Proviamo a cambiare approccio ». A quelle parole, il sangue nelle vene dei presenti si raggelò, perfino in quelle di Maeve. « Vi offro tre alternative: porre fine a questo conflitto che sicuramente porterà ad una logorante guerra confidandomi i vostri piani, marcire nelle prigioni sperando che qualcuno riesca miracolosamente a salvarvi, o », la ragazza si morse il labbro, non pronta a sentire quella sentenza che mai aveva sentito pronunciare da suo padre, « essere condannato a morte ». Si udì qualche donna trasalire, ma nient'altro. La morte era qualcosa che Ethelbert cercava sempre di evitare, perché seguire la via della luce della dea Manaar era compito di ogni sovrano di Thyandul, ma a quanto pare, in quel caso, era necessaria. Maeve si sporse di nuovo per guardare la reazione del ragazzo: sembrava essere teso e al contempo indifferente a ciò che Sua Maestà gli stesse dicendo, e la principessa non si capacitò della reazione disinteressata del principe. Sarebbe uscita allo scoperto solo per afferrarlo per il colletto e urlargli che diavolo aveva intenzione di fare, perché la sua noncuranza le faceva ribollire il sangue nelle vene. Si stava parlando del suo paese, del suo popolo, si sentiva impotente, costretta a rimanere nell'ombra mentre davanti a lei aveva un nemico del regno. Capiva perfettamente lo stato d'animo del padre, che all'ennesima risposta non data perse le staffe.
    « Gettatelo nelle segrete » fece, fissando il prigioniero con astio, così come la principessa lo osservava in lontananza chiedendosi perché si comportasse in quel modo, perché aveva la sensazione di averlo già incontrato, perché dover iniziare una guerra dal nulla? Lo seguì con lo sguardo fino a quando non lo vide uscire, spinto in malo modo dalle guardie reali, per poi mimetizzarsi tra la folla urlante che stava lasciando la sala. Doveva raggiungere le segrete, doveva parlare con lui, doveva farlo parlare, doveva capire. Prese a guardarsi attorno spaesata, le persone che facevano pressione per uscire all'aria aperta, e al momento giusto - appena ebbe capito in che punto si trovava - si infilò di nuovo nelle abitazioni della servitù, che erano sempre la via più veloce per arrivare ovunque. Le prigioni si trovavano dalla parte opposta, sotto terra, e dovette scendere un abnorme numero di scalini prima di raggiungerle. Si trattava di un luogo freddo, vuoto, poco illuminato, l'antitesi di ciò che si poteva ammirare in superficie alla luce del sole. Delle guardie presenziavano l'entrata, preferiva non dare nell'occhio per entrare perciò si appostò in un angolo e aspettò il cambio della guardia per evitare qualsiasi controllo. Per tutto il tempo, da quando aveva lasciato la sala del trono, il fuoco della rabbia le ardeva in corpo, ansiosa di dare un senso a tutte le sue congetture. In fondo sapeva che il tipo non le avrebbe risposto, come aveva fatto fino a quel momento, sapeva anche che sarebbe stato difficile mantenere la sua solita risolutezza davanti ai silenzi del ragazzo, come sapeva che qualsiasi risposta - sempre se sarebbe riuscita ad ottenerne una - non le sarebbe bastata. Doveva proteggere la sua gente da qualsiasi minaccia, e quell'individuo, in quel determinato momento, non la faceva sentire tranquilla, e ad aumentare il suo nervosismo vi era anche il fatto che fosse un viso conosciuto. Sentiva che si trattava di un particolare da non sottovalutare, ma non riusciva a collegarsi a nessuno che aveva già visto in passato.
    Maeve arrivò alla cella dove il principe era stato rinchiuso, e non fece alcun rumore per farsi notare, bensì lo osservò da oltre le sbarre: manteneva lo stesso atteggiamento indifferente di poco fa, ma stavolta era evidente che fosse un po' nervoso. Anche al buio, il blu dei capelli e degli occhi risaltava come se fosse alla luce del sole, e non si spiegava come non riusciva a ricordarsi un volto tanto particolare e un carattere così irritante. Quando il ragazzo si rese conto di avere compagnia, non se la sentì di dirgli come si chiamava o altre presentazioni non necessarie - anche perché percepiva che non gliene fregava granché. Lo guardò dritto nelle iridi cerulee, le nocche che le facevano male per quanto forte stringeva i pugni, domandandosi che bisogno c'era di intaccare la pace del suo paese e minacciare il suo popolo. Avrebbe combattuto per esso, avrebbe rischiato la sua vita pur di proteggere il suo regno, si sentiva in dovere di interrogare quel tizio, capire almeno come mai si trovava lì. Perché si rifiutava di parlare? Perché era in territorio nemico? Perché non collaborava, forse voleva la guerra? Perché era così fastidiosamente menefreghista? « Perché? » chiese in un soffio, quasi non rendendosi conto di aver aperto bocca. « Perché stai facendo tutto ciò? »

    « Parlato » || - Pensato -

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    Edited by altäir - 5/3/2019, 07:45
     
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    Cain Noller
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    La sola vista del principe di Erethos riempiva i cuori del popolo di terrore. Al suo passaggio le persone si allontanavano istintivamente, aprendo un varco degno di un re.
    L'aria in città era densa di tensione. Urla e imprecazioni accompagnavano il passaggio del giovane reale, scortato da una decina di guardie vigili e armate fino ai denti. Due uomini di grossa stazza, con tanto di armi sguainate, trascinavano Cain strattonandolo con rabbia, insultandolo e incitandolo a muoversi con parole dure. Il giovane generale, del canto suo, ormai non aveva più le forze necessarie per ribellarsi. Il massimo che poteva fare era divincolarsi, ma era tutto uno spreco di energie. In quelle condizioni, pieno di lividi, ferite e probabilmente anche microfratture sparse in giro per il corpo, rivoltarsi e opporsi al volere delle guardie era un suicidio. Perciò proseguiva, camminando a schiena eretta, il portamento fiero di un uomo pronto ad affrontare il suo imminente destino e lo sguardo stanco, ma sprezzante, dritto davanti a se. Non una volta abbassò lo sguardo, neanche quando i suoi occhi incrociarono il capolinea di quel orrendo viaggio. Il castello di Xanturion si ergeva imponente al suo cospetto, con il suo portone in legno che lentamente andava aprendosi, permettendogli l'entrata in quella che sarebbe stata la sua tomba.
    Il cuore di Cain batteva all'impazzata. Percepiva le palpitazioni rapide e costanti, mentre una sgradevole sensazione gli attanagliava la bocca dello stomaco. Sentiva il bisogno di vomitare nonostante fosse da giorni che non toccava cibo decente.
    D'improvviso le guardie bloccarono la sua avanzata, strattonandolo per le braccia e fermandolo nel mezzo di un luminoso salone. Davanti a sé, un trono vuoto.
    Cain deglutì, aveva la bocca arsa e la gola secca. Senza neanche rendersene conto stava sudando, piccole goccioline gli imperlavano le tempie, scivolando lente verso l'orecchio.
    Il brusio di sottofondo nell'enorme sala fu interrotto bruscamente dal tuono della chiusura di una porta. Cain, per un istante, si sentì mancare. Osservò il sovrano avanzare verso il trono con aria solenne, il respiro che cominciava a farsi affannoso.
    « Non te le hanno insegnate le buone maniere, principino? », gracchiò la guardia di destra, colpendolo con un forte pugno nei reni « Inchinati al cospetto del sovrano. ».
    Nel momento in cui Cain fu costretto a chinarsi, i due armigeri lo costrinsero a terra, bloccandolo in quella posizione di sottomissione.
    « Non mi sarei mai aspettato che la prima udienza della giornata fosse con il neo principe di Erethos », parlò il monarca con voce calma, ma che, nel profondo, celava un certo turbamento.
    Sentirsi appellare a quel modo causò in Cain un tremendo fastidio. Nonostante fosse effettivamente figlio del re in carica ancora non aveva ancora fatto l'abitudine al fatto di essere principe. Non lo sentiva "suo" come incarico, dopotutto era nato soldato e il massimo grado a cui aveva mai aspirato era comandante o generale. Mai si sarebbe aspettato che un giorno, improvvisamente, arrivasse uno a dirgli "Ciao, Cain! Tuo padre è diventato re di Erethos, sei il nostro nuovo principe". Per qualcuno magari poteva essere un sogno che diventava realtà, ma per Cain era come fare parte di un incubo. Da quando il suo rango di nobiltà era improvvisamente aumentato tutte le persone avevano cominciato a trattarlo diversamente. Nessuno trovava più il coraggio di contraddirlo, persino le persone che provavano una forte antipatia nei suoi confronti avevano cominciato a rivolgergli falsi sorrisi e complimenti forzati. Odiava essere circondato da ipocriti e commedianti pronti a pugnalarti alla spalle al momento del bisogno. Piuttosto preferiva rimanere da solo.
    Sollevò il capo, lo sguardo di ghiaccio fisso in quello del sovrano. Dentro si sentiva morire, ma non per questo avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi debole. Strinse i pugni e serrò le labbra, l'espressione orgogliosa di uno che, nonostante tutto, non ha paura.
    « A cosa dobbiamo la vostra visita a Thyandul? »
    A quella domanda Cain non rispose. Non mosse un muscolo, limitandosi a sostenere lo sguardo bruciante del re.
    Pensò che spiegare la propria situazione fosse un inutile perdita di tempo. Nessuno avrebbe creduto alle sue parole, avrebbero continuato ad additarlo come assassino affermando che un uomo come lui non poteva avere dei ripensamenti, non poteva essersi pentito. La fama di Cain non era nota solo ad Erethos, anche in altri regni circolavano leggende agghiaccianti sul suo conto: narravano di un uomo privo di sentimenti, la cui unica ambizione era uccidere. Non andava fiero di questi racconti, perché, appunto, erano solo racconti, bugie belle e buone. Nessuno poteva rendersi conto del dolore che Cain aveva sofferto per anni, sforzandosi di compiacere un padre indifferente e spietato che vedeva in lui solamente una macchina da usare. Nessuno poteva immaginare quanto le sue azioni lo avessero turbato, avessero creato una voragine dentro al suo petto che via via andava espandendosi. Nessuno poteva capire il dolore di andare contro i propri ideali, solo per compiacere una persona cara.
    Strinse i pugni talmente forte da sentire le nocche scricchiolare.
    Continuò ad ascoltare le domande che gli venivano poste, in silenzio, lo sguardo accigliato che sembrava voler sfidare la pazienza del sovrano.
    « ...essere condannato a morte. »
    Al momento della sentenza, il cuore di Cain sussultò, e per la prima volta abbassò lo sguardo. Sapeva di essere già morto. Il padre non avrebbe mai accettato vincoli simili, piuttosto l'avrebbe lasciato marcire a vita in una prigione, o peggio ancora, l'avrebbe lasciato morire.
    Scosse il capo e si lasciò andare a un lungo sospiro, per poi sentire la presa alle braccia farsi più salda. Venne sollevato con prepotenza e trascinato in contro alla folla. Mentre alcune guardie aprivano la strada nella calca infiammata, altri armigeri accompagnavano il prigioniero nelle prigioni.
    Nelle carceri il buio avvolse la figura di Cain come un tessuto impalpabile, l'aria era talmente umida da togliere il fiato e nelle pareti scivolavano lente verso gocce di condensa nera. Il terreno era scivoloso, quasi bagnato e tracce di muschio disegnavano a terra figure indistinte e sporadiche.
    Cain osservò quella che sarebbe stata la sua cella, mentre con un secco "clank" le chiavi sbloccavano la serratura della sgangherata porta metallica.
    « Spero che la cella sia di suo gradimento, principino... », sogghignò una guardia, spintonandolo nel locale umido con particolare irruenza. « ...perché marcirà qui per il resto dei suoi giorni. », concluse poi, ghignante, chiudendo a doppia mandata la cella.
    « Sempre che non lo uccidano prima. », aggiunse un'altra guardia, con presunzione, scatenando nei compagni una crudele risata collettiva.
    Cain li osservò allontanarsi da dietro le sbarre, le mani che bruciavano dalla voglia che aveva di assestare un bel colpo su quei brutti musi. In un impeto di rabbia tirò un calcio alle sbarre, facendole sbattere e vibrare rumorosamente.
    Terminato lo sfogo poggiò la schiena contro le sbarre, lasciandosi scivolare a terra fino a sedersi. Sospirò, un sospiro che aveva tante sfaccettature, coprendosi il viso con la mano destra. Rimase immobile in quella posizione per svariati secondi, gli occhi socchiusi e la testa che a momenti scoppiava da quanti pensieri andavano e venivano, aggrovigliandosi e inseguendosi con confusione.
    Lentamente alzò gli occhi, incrociando la luce diretta proveniente dalla piccola fessura nel muro che, teoricamente, avrebbe dovuto essere una finestra. Assottigliò lo sguardo, coprendosi il viso per non essere accecato dalla luce: al di fuori un cielo color indaco gli sorrideva spensierato, solcato da nuvole soffici e paffute che si rincorrevano spinte dal vento. Era da tanto tempo che non vedeva un cielo così bello. Da dove veniva lui, cieli tersi e luminosi erano una rarità. Al contrario era abituato a cieli grigi e paesaggi appannati dalla nebbia.
    Improvvisamente, una voce lo ricacciò indietro dai meandri dei suoi pensieri. Era una voce sconosciuta, ma piacevole.
    « Perché? », una domanda secca, espressa con tono deciso « Perché stai facendo tutto ciò? »
    Cain spostò il viso di lato, osservando al di là delle sbarre un viso femminile dalle fattezze delicate e i grandi occhi verdi. Le labbra sottili color pesca e il viso candido si scontravano con gli indumenti logori, rattoppati e malandati. A primo impatto ci avrebbe messo la mano sul fuoco sul fatto che si trattava una nobilotta qualunque, ma studiando attentamente i suoi capelli disordinati e le macchie di fuliggine sul viso, tutto sembrava fuorché aristocratica. Probabilmente era solo una serva con il capriccio di fingersi l'eroina della situazione.
    Dopo lunghi secondi di silenzio, con il flebile rumore di acqua che gocciolava in sottofondo, Cain prese parola « Non devo alcuna risposta a una sguattera. », fece con tono apatico, voltandosi e facendole capire che la conversazione finiva lì.
    La ragazza però parve non comprendere il segnale lanciatole da Cain, riprendendo la parola poco dopo « A una sguattera forse no... », disse, le sopracciglia aggrottate e le labbra serrate in un'espressione oltraggiata, « ...ma alla principessa sì. ».
    Quell'ultima frase trafisse il cervello di Cain come un dardo. Per qualche istante fu tentato di chiederle "puoi ripetere, scusa?" ma si trattenne, limitandosi a voltarsi e osservarla con espressione perplessa, un sopracciglio sollevato. La studiò da capo a piedi con occhio clinico, cercando di capire se stesse mentendo o meno, ma purtroppo non aveva le conoscenze adeguate per riconoscere se la ragazza fosse o meno una bugiarda. Decise comunque di stare al suo gioco, principessa o meno non voleva rompiscatole tra i piedi. Ne aveva avuto decisamente abbastanza per oggi.
    Senza aprir bocca si sollevò in piedi, sbattendo con noncuranza il mantello e il retro dei pantaloni « Principessa, eh? », ripeté, in tono non esattamente convinto.
    « Tu invece sai chi sono io, principessa? », chiese poi, camminandole davanti. Rimase in silenzio osservandola dritto negli occhi in un atteggiamento quasi di sfida « Dubito fortemente, altrimenti non saresti qui. », continuò, rispondendo da solo alla propria domanda.
    Detto ciò le voltò le spalle, dirigendosi alla brandina - "brandina" per modo di dire visto che era solamente uno scalino in roccia nel muro coperto di paglia dall'odore acre.
    « Ora va, lasciami in pace. », concluse, stendendosi sul fieno e alzando una nuvola di polvere. Abbassò la bandana sugli occhi e portò le braccia conserte dietro la testa, usando i palmi aperti a mo' di cuscino.
    THEY SAY THAT I MUST LEARN TO KILL BEFORE I CAN FEEL SAFE, BUT I, I'D RATHER KILL MYSELF THAN TURN INTO THEIR SLAVE.
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    Edited by rhænys` - 21/11/2018, 11:15
     
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    « Take a minute and revel in it and see how much we’re worth, I’ll fight and defend, I’ll see this out to the end. So follow me, to the ends of the earth »
    La prigione era un luogo buio e angusto, senza fonti di luce fatta eccezione per sporadiche torce affisse ai muri e qualche sottile finestra, giusto per ricordare ai prigionieri che, probabilmente, non avrebbero più provato la gioia di sentire il piacevole tepore del sole sulla loro pelle. Suo padre non sapeva che Maeve era a conoscenza della presenza di specifici criminali nelle segrete del castello e delle loro terribili fini, dato che il re aveva sempre cercato di tenerle nascosto il lato oscuro di essere un regnante, ossia occuparsi anche di decidere del destino di una persona. Osservò il ragazzo nella cella, e non sembrava turbato dal fatto che il suo avvenire era nelle mani di re Ethelbert. Se ne stava nell'ombra, solo in parte colpito da dei timidi raggi di sole. Lo sguardo che le rivolse era sprezzante, di rimando a quello della principessa. Lui rispose dopo qualche secondo, senza scomporsi. Era ovvio come non la riteneva degna di una spiegazione e non faceva nulla per nasconderlo. Quel tizio non le piaceva. Era arrivato lui, d'improvviso, e senza tanti giri di parole era venuta a sapere che il suo paese era ad un passo dalla guerra. Aveva paura, l'aveva vissuta, e senza Dominic non sapeva come affrontare un conflitto di tale portata. Il fuoco della determinazione bruciava prepotente in lei, almeno fino a quando non era comparso lui. Ora percepiva incertezza e rabbia con la stessa intensità della volontà che l'aveva spinta a decidere di voler combattere per il suo popolo. « A una sguattera forse no... » fece, con decisione e cercando di non far trasparire quanto la sua presenza le desse fastidio, « ... ma alla principessa sì. » Ovviamente non sembrava troppo sorpreso, ma non le importava. Voleva solo schiarirsi le idee, ma l'altro non voleva proprio collaborare. E la sua reazione era pure comprensibile - chi si sarebbe confessato subito al nemico? Tipi come lui andavano lavorati per bene. « Principessa, eh? » la schernì con un tono che le fece ribollire il sangue nelle vene, ma non lo mostrò. Aveva un certo talento nel nascondere ciò che provava in situazioni che mettevano a dura prova la sua enorme pazienza. « Cos'è, te lo devo ripetere? Non è un concetto tanto difficile da comprendere » fece di rimando Maeve incrociando le braccia al petto. Ripensò solo dopo che aveva indosso vestiti che una principessa non avrebbe mai indossato, ma continuò a reggere il gioco. In fondo, se non la riconosceva, la cosa andava anche a suo vantaggio. « Tu invece sai chi sono io, principessa? » la voce ferma del ragazzo la destabilizzò, e venne verso di lei con così tanta decisione che quasi temette che potesse uscire dalla cella senza tanti sforzi e bloccarla al muro. Nei suoi occhi bruciavano fiamme ardenti, e non dubitò del fatto che fosse in grado di dare inizio ad un conflitto. « Dubito fortemente, altrimenti non saresti qui. » non le diede tempo di parlare, che si coricò sul fieno messo lì a mo' di letto, facendole capire che non voleva più avere a che fare con lei. Di lui sapeva che era un nemico della sua patria, nient'altro, e solamente questo le bastava per disprezzarlo, ma non aveva paura di lui, quando invece secondo il ragazzo avrebbe fatto bene ad averne. Che diavolo aveva combinato? « Sei un mio nemico, mi basta questo ». Lo disse piano, ma nel silenzio delle segrete rimbombò come se lo avesse urlato in mezzo alla piazza principale di Xanturion. « Non ho paura di te e non ho paura di quel che potresti farmi, voglio solo tenere al sicuro il mio popolo », lo disse stringendo i pugni, mordendosi le labbra per non urlare, approfittando del fatto che lui non la stava più guardando. Si sentiva davvero inutile, forse poteva fare di più, ma cosa esattamente? Non ne riusciva a venire a capo, e tutto ciò che le balenava in mente erano azioni fin troppo irresponsabili. Una futura regina doveva ponderare ogni decisione. Poteva parlarne con suo padre, magari al consiglio, ma il re si sarebbe sicuramente rifiutato di farla partecipare. Doveva scoprire quando avrebbe indetto una seduta - in queste occasioni era necessario farla - e, ahimé, origliare, e agire di conseguenza. Maeve sapeva poco e niente in fin dei conti, suo padre e i suoi fedeli consiglieri erano sicuramente a conoscenza di altro. Doveva aiutare a tenere Thyandul al sicuro. La ragazza si passò una mano sul viso, sporcandosi ancora di più di fuliggine, posando poi di nuovo lo sguardo sullo sconosciuto in cella. Era sempre più convinta di averlo visto da qualche parte, anche di sfuggita, ma ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
    Le poche parole che si erano scambiati avevano attirato l'attenzione di qualcuno, perché udì dei passi farsi sempre più vicini e un "Ehi!" piuttosto sgarbato. Maeve sbuffò tra sé e sé, guardandosi velocemente intorno. Inutile, perché era ovvio che l'unica via per uscire era anche l'unica per entrare. Il ragazzo non si mosse a sentire le voci delle guardie, anzi, probabilmente portandola via gli avrebbero fatto un enorme favore. « Non finisce qui » ringhiò piano, prima di scattare in direzione dei due soldati. Questi sembrarono sorpresi di vederla, forse non aspettandosi che una ragazzina fosse riuscita ad entrare sotto i loro occhi. « Ferma lì, ragazzina! » le gridò uno dei due, proprio nel momento in cui Maeve faceva una capriola per evitarli e ritrovarseli alle spalle. Si rialzò con una spalla dolorante e qualche sassolino tra i capelli castani, evitò la lama della spada di una guardia e si mise a correre più veloce che poté lontano da lì. Sentiva le grida degli uomini in armatura dietro di lei, lenti e pesanti, e riuscì a seminarli nei meandri del giardino del castello. Mentre li ascoltava borbottare che non era una prigioniera quindi potevano anche non avvisare il re dell'inaspettata incursione, Maeve sgattaiolò silenziosamente negli appartamenti dei servitori, avendo cura di non incrociare nessuno. Quei stramaledetti occhi azzurri stracolmi d'odio non sarebbe riuscita a toglierseli dalla testa.

    • • •

    Re Ethelbert aspettò che la sala fosse vuota prima di tirare un sospiro profondo e stanco, rimanendo a guardare l'entrata alla sala del trono con sguardo assente. Una guerra. Un'altra. Greil di Erethos era un pazzo, lo sapeva. Era venuto a conoscenza dei suoi sotterfugi per spodestare Eldarion, ma nessuno era mai riuscito a confermare se fossero veritieri o meno. Ciò che era certo era la sua sete di potere, ed ora che il precedente re del paese vicino era spirato nulla gli impediva di perseguire le sue mire espansionistiche. Al contrario, Ethelbert odiava le guerre. Il modo in cui governava e il benessere del suo popolo ne erano la prova lampante, ma se Greil avesse attaccato per primo non poteva non proteggere Thyandul da ogni minaccia. Il problema era che Greil avrebbe sicuramente attaccato, dovevano trovare un accordo da proporgli e anche in fretta, onde evitare spargimenti di sangue. Ethelbert sapeva di essere un re forte, paziente, ma in queste situazioni si sentiva in gabbia. Nell'ultimo conflitto, risalente ad un paio di anni prima, l'esercito di Thyandul aveva subito ingenti perdite contro il regno di Egura. Veder tornare in città, seppur vittoriosi, migliaia di soldati stanchi e altrettanti cadaveri, tra cui quello di suo figlio, lo avevano smosso nel profondo, tanto che aveva pregato innumerevoli volte la dea Manaar di benedirli con un lungo e prospero periodo di pace, ma a quanto pare nulla di ciò era bastato. I suoi pensieri furono interrotti dal rumore del grande portone che si apriva, rivelando la figura di un uomo possente ma evidentemente segnato dal tempo.
    « Ho sentito adesso di Cain » fece subito l'uomo, e il re sospirò di nuovo. « Greil ci attaccherà » annunciò il re a Evin, il suo fedele consigliere, « e bisogna trovare un accordo ». Evin si toccò la barba scura e incolta, dello stesso colore dei capelli, spostando gli occhi nervosamente da una parte all'altra della stanza. Non era un tipo di grande parole, ma era evidente che la notizia l'avesse messo sull'allerta. « Abbiamo suo figlio, possiamo sfruttare lui » propose il consigliere, e il re sospirò per l'ennesima volta. Sospirava spesso, ultimamente. Era così stanco. « Avrei voluto evitare di fargli del male, non così presto almeno » borbottò il regnante, ma era conscio che Cain era l'unica merce di scambio che aveva, escludendo i territori di Thyandul. « Sapete qual è la priorità, Maestà » fece Evin, e sì, lo sapeva bene. « Il regno, lo so benissimo, e agirò per il bene della mia gente come ho sempre fatto ». Re Ethelbert era sempre stato leale al suo popolo, non avrebbe fatto nulla per recargli danno, ma vedere il figlio di Greil così giovane e a un passo dalla morte, gli ricordava i suoi figli. Sospirò, ancora, e in un solo respiro, ordinò ad Evin di riunire il consiglio. Non poteva permettersi di indugiare.

    • • •

    Il messaggero che aveva inviato a Meneldor era stato atteso da molti al castello, ma nessuno si sarebbe aspettato che sarebbe tornato morto. La pergamena indirizzata a Greil era sporca di sangue, quasi ormai illeggibile. Ethelbert, mentre si specchiava negli occhi vitrei dell'uomo, vide un futuro pieno di agonia davanti a sé. Aveva scritto al neo sovrano di Erethos che aveva catturato suo figlio e, se voleva rivederlo vivo, doveva ordinare alle truppe al confine di ritirarsi. Greil aveva declinato l'offerta non solo promettendogli un'estenuante guerra, ma anche facendolo assistere ad uno spettacolo tremendo, confermando l'ipotesi che di suo figlio poco gliene importava. Quindi non era una spia, se aveva dato la libertà di ucciderlo? O Cain aveva già riferito tutto ciò di cui il padre aveva bisogno? Cosa doveva fare con lui? Sentiva lo sguardo di Evin su di lui, e quella pressione non gli piaceva. Il suo regno era in pericolo, e avrebbe potuto sopportare ogni cosa tranne tutto ciò. « Domani Cain Noller verrà impiccato »

    « Parlato » || - Pensato -

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    Proprio non riusciva a scollarsela di dosso quella presunta "principessa". Nonostante le avesse palesemente detto in faccia che, di lei, non ne voleva più sapere, la giovane continuava a starsene lì, davanti alle sbarre, trafiggendolo con uno sguardo tanto truce che quasi riusciva a sentirlo a contatto con la pelle.
    Del canto suo Cain optò per ignorarla. Non aveva le energie e la voglia necessaria per stare dietro ai suoi discorsi. Perciò abbassò la bandana sugli occhi, la testa appoggiata sugli avambracci a mò di cuscino, mentre le parole della ragazza sfioravano la sua mente, senza riuscire ad entravi, come una sorta di trascurabile sottofondo musicale. Sembrava andare tutto liscio, nulla lo toccava, fino a..."voglio solo tenere al sicuro il mio popolo". Rimase folgorato da quella frase, come se la ragazza avesse scoccato una freccia che, in qualche modo, gli aveva penetrato prima il cuore poi il cervello, uno di seguito all'altro.
    Sollevò un lembo di bandana dal viso, scoprendo un occhio. Rimase ad osservarla, in silenzio, con la frase che riecheggiava facendosi prepotentemente spazio tra gli altri pensieri. Parole del genere suo padre non le avrebbe mai pronunciate, pensò, ricordando gli innumerevoli civili che avevano perso la vita a causa dei suoi infantili capricci. Il popolo, per lui, era carne da macello: alla prima ribellione non si faceva scrupoli a mandare i soldati a uccidere, governando incutendo timore nelle persone che avrebbero dovuto amarlo, non temerlo.
    Per un attimo, ma solo per un attimo, Cain credette veramente alla storiella che la ragazza fosse la principessa, ma le sue convinzioni vennero presto smentite. Un urlo echeggiò tra le mura umide e strette dalla prigione, seguito da rumore di passi rapidi e stridere di metallo. Osservando la scena della ragazza in preda a qualche istante di panico, Cain non riuscì a non lasciarsi sfuggire una risata di scherno. Diamine, gliel'aveva proprio fatta, quella sguattera. Il tono, l'atteggiamento, persino il suo sguardo trasudava determinazione. Inutile dire che se avesse continuato a recitare così sarebbe diventata sicuramente un'ottima attrice.

    ⋘ ⋙

    Nonostante fosse trascorso poco più di un giorno aveva quasi completamente perso la cognizione del tempo. L'unico fattore che gli permetteva di mantenere un minimo lucidità era il timido raggio lunare che penetrava dalla fessura sul muro. Se non fosse stato per il suono del vento e la fioca illuminazione donatagli dalla notte probabilmente in quel silenzio profondo, quasi innaturale, avrebbe perso la testa in poco tempo.
    Immerso in quella coltre oscura, seduto a terra, osservava la propria ombra proiettata a terra dallo spiraglio alle spalle. Un alito di aria fredda gli soffiava gelido sulla schiena, provocandogli una leggera pelle d'oca. Avrebbe potuto spostarsi, ma non voleva: quel fiato era una delle poche cose che, in quel momento, lo faceva sentire vivo, permettendogli di provare un emozione diversa dalla solitudine e, sì, anche dalla paura.
    Improvvisamente un suono metallico, simile a quello di una serratura che si apre, irruppe nel silenzio tombale. Un brivido percorse nuovamente la schiena di Cain, ma questa volta il freddo non c'entrava un bel niente.
    Un rumore di passi unito a voci indistinte cominciò a distinguersi in quell'eco caotico, divenendo sempre più chiaro e gradualmente più forte.
    Il cuore di Cain perse un battito nel riconoscere una delle voci, la stessa che pochi istanti dopo, pronunciò il suo nome « Principe Cain. », affermò il re in un saluto autorevole e rispettoso.
    Seguirono secondi di silenzio che parvero infiniti in cui gli occhi di Cain, seppur stanchi, scintillavano, scontrandosi con quelli severi e austeri del reale.
    « Vostro padre, Re Greil, ha rifiutato qualsiasi trattativa. », continuò Ethelbert, in tono deciso « Sapete cosa significa, vero? »
    Cain non rispose. Non aveva la forza di farlo. Quella notizia sembrava aver prosciugato tutte le sue speranze di sopravvivere e, assieme, spento anche quel barlume di luce in fondo al suo cuore, costituito dalla fiducia che suo padre almeno un po' ci tenesse a lui. Invece si sbagliava. Si sbagliava di grosso.
    Lacrime calde cominciarono a pungergli ai lati degli occhi, mentre dalla ferita nel cuore sgorgava sangue a fiotti. Abbassò il viso, con tutta l'intenzione di nascondere la propria debolezza.
    « Figliolo, ascoltami. », di nuovo il re parlò, questa volta però con tono differente, come se stesse parlando con una persona a lui cara « Ti darò un'ultima possibilità, se parlerai il consiglio valuterà se lasciarti in vita. »
    Una moltitudine di emozioni brulicava nel petto di Cain, causandogli una tremenda confusione. Sentiva la mente annebbiata, come se improvvisamente fosse incapace di pensare. Respirò, un respiro pesante e profondo.
    « Lasciarmi in vita, e a che scopo? », chiese, ancora a capo chino, lasciandosi sfuggire una risata di scherno che, nei meandri, celava un'enorme tristezza « Per marcire un'intera vita in una cella? »
    Con un immenso sforzo psicologico ricacciò dentro l'ennesime lacrime, sfidando il sovrano con tono arrogante e sguardo duro « No, grazie, preferisco morire. »
    Dopo aver pronunciato quella frase quasi di getto, Cain si rese conto di aver appena accettato il suo biglietto di sola andata per la tomba.
    Ethelbert, del canto suo, parve quasi dispiaciuto. Rispose con tono pacato, senza cedere alla provocazione, limitandosi a un lieve cenno di capo in segno di assenso « Come preferisci. », fece, incrociando lo sguardo con quello fiammeggiante del giovane generale « Domani mattina all'alba sarai giustiziato. », dichiarò prima di allontanarsi, accompagnato dalla scorta di guardie e rumore di ferraglia.
    Cain osservò la luce della torcia allontanarsi e diventare sempre più debole, fino a sparire del tutto. L'oscurità avvolse il paesaggio nella sua dolce stretta, accompagnando Cain in quella ultima, lunghissima notte.

    ⋘ ⋙

    Una tenue luce cominciò a distinguersi sulla linea dell'orizzonte, scacciando lentamente le tenebre. Cain scrutò il cielo schiarirsi, dipingendosi di tonalità via via sempre più calde. Un timido raggio di sole fece capolino da dietro un monte lontano, accarezzandogli il viso con estrema delicatezza. Alcune nuvole in lontananza si illuminarono, disegnando un paesaggio piuttosto comune ma che, quel giorno, a Cain pareva più bello di quanto non fosse mai stato. Forse perché quella sarebbe stata l'ultima volta che il giovane generale avrebbe visto un panorama simile. Sospirò, osservando un uccello, probabilmente una rondine, attraversare fluttuando la volta celeste. E' proprio vero, pensò, non ti rendi conto di quanto sia importante un momento finché non si tramuta in ricordo.
    D'improvviso una voce, seguita da un "clank" metallico « Muoviti ragazzo, è arrivato il momento. ».
    Cain si voltò, una guardia lo attendeva all'entrata della cella, tra le mani un paio di manette metalliche dalla catena piuttosto spessa. Il giovane, scoraggiato, obbedì all'ordine, avvicinandosi e porgendo le braccia. Con entrambe le braccia bloccate venne quindi scortato lungo il corridoio della prigione e accompagnato nella piazza principale di Thyandul. Sentiva addosso il peso dello sguardo delle persone, centinaia se non migliaia di persone che attendevano trepidanti la sua morte. Insulti e urla di vario genere si sollevavano dalla folla, riempiendo quell'aria già densa di odio e tensione.
    Venne accompagnato al patibolo e fatto posizionare sopra la botola. Un soldato gli strinse attorno al collo una robusta corda con nodo a cappio, avviandosi poi verso la leva di attivazione.
    Cain, del canto suo, mantenne postura e sguardo fieri, pronto ad affrontare il suo ennesimo avversario, dal quale però, questa volta, non avrebbe avuto alcuna possibilità di scampo. La morte.
    THEY SAY THAT I MUST LEARN TO KILL BEFORE I CAN FEEL SAFE, BUT I, I'D RATHER KILL MYSELF THAN TURN INTO THEIR SLAVE.
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    Edited by rhænys` - 21/11/2018, 17:15
     
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    regno di thyandul
    Città di Xanturion • Tempio della dea Manaar



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    « Take a minute and revel in it and see how much we’re worth, I’ll fight and defend, I’ll see this out to the end. So follow me, to the ends of the earth »
    Anche all'interno del tempio di Manaar le tempie le pulsavano e la testa era affollata di pensieri che si affollavano sul misterioso ragazzo arrivato il giorno prima a Xanturion scortato da soldati. Aveva distrutto la tranquillità che regnava in città di colpo, la piazza gremiva non di persone serene, uscite di casa semplicemente per dare un'occhiata alle bancarelle della domenica mattina, bensì gente inferocita e desiderosa di vendetta contro l'intero regno di Erethos, rappresentato in quel momento da un tizio che dimostrava all'incirca l'età di Maeve e aveva già perso interesse in ogni cosa, era come se non avesse più speranza, come se essere giustiziato gli andasse bene. Non aveva messo in dubbio il mandato di re Ethelbert che, conoscendo suo padre, avrebbe preferito non vedere nessuno morire per suo ordine. Il giovane soldato sarebbe morto in una tiepida giornata di fine inverno e insieme alla primavera sarebbe sbocciata una nuova guerra. Sapeva dello scambio non giunto a buon fine tra suo padre e Greil, regnante di Erethos, e quello sarebbe stato solo l'inizio di uno sfiancante conflitto. La principessa strinse le mani congiunte in preghiera, portandole al petto in una disperata richiesta di aiuto. Voleva solo riuscire ad eliminare tutta la confusione e l'immagine del prigioniero che le tornava alla mente ogni due per tre, non pensare alla sua morte imminente. Il suo volto la tormentava da quando l'aveva visto in ginocchio nella sala del trono e quel suo sguardo carico d'odio era sicura di averlo già visto. Forse si stava confondendo con qualcuno che aveva visto in città durante una delle sue uscite, oppure un reale di qualche regno confinante, o un servo, o un ricercato, o un personaggio storico. Per giorni, Maeve aveva vagato nell'incertezza e in quel momento sperava solamente di trovare conforto nel dolce abbraccio di Manaar. In quanto sua sacerdotessa, la ragazza si recava spesso al tempio dedicato alla dea della luce e della creazione, e anche quella mattina, nonostante si preannunciasse una giornata pesante e tutt'altro che tranquilla, pregò affinché benedicesse la sua gente. La guerra era alle porte, inutile sperare in una prospera epoca di pace, ma si augurò che Manaar potesse, in qualche modo, alleggerire la situazione. La preghiera le portava sollievo, la incoraggiava, ed essere la sacerdotessa della dea - pratica che si portava avanti fin dai tempi antichi tra le donne della famiglia reale di Thyandul - la rincuorava anche nei tempi più bui, sapeva che nella fede avrebbe trovato un sostegno. Ripensò, inevitabilmente, all'imminente morte del ragazzo dai capelli blu che avrebbe avuto luogo quella mattina stessa: doveva dirigersi alla piazza principale per assistere all'esecuzione del prigioniero, i suoi genitori la stavano sicuramente aspettando, ma non se la sentiva di lasciare quel luogo. Era come se i problemi stessero tutti all'esterno del tempio, che una volta fuori avrebbe sentito il peso delle responsabilità e l'avvicinarsi di una guerra sanguinaria, mentre nel santuario si sentiva al sicuro, Manaar la faceva sentire al sicuro. Magari avesse potuto proteggere tutta Thyandul dal conflitto che incombeva minaccioso. La implorò silenziosamente, confusa e senza una via da seguire. D'un tratto, ebbe paura. Della guerra, di combattere, di morire. Lei, che aveva sempre sognato di condurre l'esercito in battaglia, venne accecata dal terrore. E se fosse morta? E se i suoi soldati fossero morti con lei? Sentiva di aver paura di morire, in quel momento, una paura folle. Dominic era caduto allo stesso modo, e lei ripagava il suo sacrificio morendo a sua volta? Perché voleva combattere, perché si era allenata tanto? Non voleva morire, non voleva che nessuno morisse, non voleva che suo fratello fosse morto, non voleva che il prigioniero misterioso morisse lontano dalla sua terra, non...
    Il tempo si fermò, e con esso il battito frenetico del cuore della principessa. Venne travolta dalla frenesia del campo di battaglia, sapeva dove si trovava, era un sogno che faceva spesso ma che non riusciva ad interpretare. La protagonista era lei stessa, che andava alla carica, mollava fendenti a destra e a manca, nella speranza di sopravvivere, e poi cadeva a terra, impotente. Gli uomini che la circondavano avevano la faccia oscurata da una sorta di foschia, perciò non aveva idea di chi fosse l'uomo che aveva alzato la lama su di lei, pronto ad ucciderla. Come previsto, arrivò un ragazzo in suo soccorso, che respinse il nemico con una facilità impressionante, ma non aveva mai saputo chi fosse. Quella visione però era chiara e nitida, e riuscì a scorgere le tonalità del suo vestiario e il colore dei suoi capelli. Erano blu cobalto. Lo sconosciuto impugnava la spada sacra del regno di Thyandul, Yeosin, un'arma che solo i prescelti della dea Manaar riuscivano ad utilizzare. Ciò significava solo una cosa: l'uomo davanti a lei non era altro che l'eroe di Thyandul, colui che avrebbe portato la pace e ristabilito l'equilibrio. Solo che non poteva essere proprio lui. Aveva portato caos, non era fedele neanche al suo regno di origine, chissà se sarebbe stato in grado di aiutare Thyandul. Perché non poteva essere lei? Perché non lo era stato Dominic? Guardò il ragazzo negli occhi, mentre le intimava di alzarsi con una voce che aveva già sentito. Si sentì una stupida: lo aveva già visto nei suoi sogni e non lo aveva riconosciuto nella prigione quando si erano trovati uno di fronte all'altra. La visione svanì di colpo e Maeve si sentì stordita, la testa che girava senza tregua. « Ma che diavolo... » sussurrò, passandosi una manica del vestito scuro che indossava sul viso: lacrime. Se le asciugò velocemente, puntando subito lo sguardo al trono della dea. Era il suo eroe, il suo prescelto. Doveva salvarlo, e in fretta. « Átaremma i ëa han ëa » cominciò a recitare la preghiera mentre si alzava in piedi, velocemente, prima di congedarsi, « na aire esselya. » fece un breve inchino prima di uscire e cominciare a correre verso la piazza principale e per la prima volta maledì l'ubicazione del tempio, così lontano dal centro di Xanturion. Sperò davvero non fosse troppo tardi per evitare che il prescelto morisse. Era una corsa contro il tempo, una corsa che la stava sfiancando, le gambe si muovevano per conto proprio e benedì il cielo quando notò un'enorme calca di persone in lontananza. Se la gente non si era ancora dispersa, significava che era ancora in tempo. Le strade erano vuote e silenziose, cosa che nella capitale di Thyandul accadeva solamente in occasione di eventi funesti. Un'esecuzione era uno di quelli: il popolo rimaneva in silenzio per onorare la morte del malcapitato, ma, trattandosi di un nemico del loro regno, sapeva che avrebbero gioito appena il priogioniero avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Cominciò a mancarle il fiato e a farle male la milza, le piante dei piedi bruciavano, ma era l'eroe del regno. Doveva farlo per Thyandul. Thyandul sarebbe stato salvo. Avrebbe protetto il suo popolo. Manaar aveva mandato lei a salvarlo. Si fece spazio tra le persone che la salutavano con "Altezza, anche voi qui?" o le chiedevano perché fosse di fretta o perché non fosse al fianco dei regnanti ad assistere all'esecuzione. Maeve non ascoltò nessuno di loro, in mezzo a tutta quella gente le sembrò di annegare e non riuscire mai ad arrivare al patibolo, dove il boia aspettava trepidante l'ordine del re per far mancare la terra sotto i piedi al ragazzo. Ad un passo dal salire le scale, vide una guardia che cercò di agguantarla e lei si spostò di lato, evitandola per un soffio, salendo sulla struttura. Non riuscì a dire nulla a causa del fiatone, ma la sua presenza sul patibolo attirò l'attenzione di tutti i presenti, e poteva sentire lo sguardo del padre che la attraversava da parte a parte. L'orlo dell'abito era sporco e i capelli in disordine, sicuramente non sembrava una giovane erede al trono in grado di convincere la sua gente a revocare una pena di morte. « Fermatevi! » gridò, prima di dover riprendere nuovamente fiato. Il silenzio che aleggiava era molto più pesante di quello che anticipa un'impiccagione. « Per ordine di Manaar, fermatevi! » ripeté, e sembrò fare più effetto. « Manaar mi ha mostrato il futuro del nostro regno e quest'uomo » si girò verso di lui, che la guardava stranito. Probabilmente adesso credeva che era davvero la principessa. L'aveva salvato, ce l'aveva fatta. Thyandul sarebbe stato salvo grazie a lui. - Perché non grazie a me? -. Lui avrebbe protetto il popolo che Maeve tanto amava. - Perché non me? -. Manaar aveva mandato lei a salvarlo. - Perché Manaar non ha scelto me per salvarli? -. « avrà un ruolo cruciale. » si sforzò di dire ad alta voce, perché la delusione e la rabbia le stavano mangiando lo stomaco. Lo guardava e in lui vedeva un ragazzo poco collaborativo, al quale poco importava di ciò che stava succedendo. E lei doveva lasciare tutto quello che amava nelle sue mani? Deglutì. « Propongo... », « Maeve! » Re Ethelbert si alzò dalla sua sedia in modo rumoroso, la voce tuonante e un'espressione dura. Maeve deglutì di nuovo, ma non abbassò lo sguardo. Si stava mettendo contro tutti, lo sapeva bene, doveva apparire sicura e determinata. « Propongo di sottoporlo alla prova di Yeosin. La dea Manaar mi ha rivelato che lui sarà l'eroe di cui abbiamo bisogno, », « Maeve! », « se riuscirà a sollevare la spada lo terremo in vita » le faceva male la gola a forza di gridare e sovrastare la voce del padre, « e lui dovrà schierarsi con Thyandul e giurare fedeltà al suo re e alla sua dea! ». Il popolo era in disaccordo, sentiva i bisbiglii e immaginava ciò che stavano dicendo alle sue spalle. « E' questo il volere di Manaar. » dicendolo, si rese conto di quanto potesse spingersi in là per servirla: non era d'accordo con lei. Quel tizio era un nemico della sua patria, non meritava tale titolo, non gli avrebbe affidato l'avvenire del suo regno. C'erano persone più meritevoli, più ambiziose, pronte a sacrificarsi, ma la dea aveva scelto lui, un nemico. Si sentì tradita, e quasi la prima a non credere a ciò che la dea le aveva mostrato. Maeve non sarebbe mai riuscita a raggiungere i suoi obiettivi, quella ne era l'ennesima prova.

    • • •

    Yeosin era chiusa in una teca di vetro, all'interno di una sala del tempio, coperta di rovi e spine. Nessuno era riuscito a fare sua la leggendaria spada insieme al titolo di prescelto, e a quanto pare era giunto il momento. La gente lì radunata non era pronta all'evento, e forse neanche il resto del regno lo era. Neanche la principessa, la stessa sacerdotessa di Manaar. Lungo il tragitto, il re l'aveva presa in disparte, rimproverandola. Sapeva di essere stata impulsiva e che non era da lei. Sapeva anche che non poteva permettersi di interrompere una cerimonia in quel modo, a cuor leggero, ma la ragazza si sentì di rispondergli in un solo modo, ossia "Manaar mi ha inviata". Era la risposta che ci si aspettava da una sacerdotessa, ma non quella che Maeve avrebbe voluto pronunciare davvero. Lei avrebbe voluto gridare, a squarciagola. Dominic era stato un eroe, aveva salvato centinaia di persone compresa lei, Maeve stessa aveva a cuore il destino del suo popolo più di ogni altra cosa, come mai era uno sconosciuto ad impugnare Yeosin? La principessa non aveva mai ambito ad un riconoscimento del genere, ma in quel momento sembrava... sbagliato. Non sapevano nulla di quel tizio, se non che era parteggiava per Greil, il regnante senza cuore. Cosa doveva aspettarsi da una persona del genere? Prese un profondo respiro quando vide il ragazzo sollevare la sacra spada, mentre i rovi che circondavano la teca tornavano a fiorire di nuovo dopo anni. Voleva gridare, furiosa, invece recitò una preghiera, in silenzio, sperando che Manaar la perdonasse.

    • • •

    La principessa si diresse verso la cella in cui Cain - questo il nome del prigioniero - era stato rinchiuso qualche giorno prima scortata da qualche guardia, le loro scarpe e armature che facevano rumore sul pavimento era l'unico suono che si udiva in quel luogo freddo. Quando lo vide dietro le sbarre, lui non si girò neanche verso di lei. La sua vista incendiò nella principessa una rabbia che mai aveva provato nei confronti di qualcuno. Era un codardo. Non era stato lui a scegliere di essere l'eroe, ma anche Thyandul avrebbe preferito qualcun'altro al suo posto. In fondo, la ragazza sperava ancora che potesse cambiare idea una volta fatto inserire nel consiglio o averlo fatto arruolare nell'esercito, ma essendo indecisi sul da farsi suo padre aveva ordinato di lasciarlo in gattabuia finché non avrebbero preso una decisione ufficiale. Intanto, Maeve aveva ricevuto l'ordine di applicare un incantesimo sul ragazzo che gli avrebbe impedito di lasciare il regno e varcarne i confini, giusto per sicurezza. « Ehi generale » fece, stendendo il braccio destro verso Cain con la mano aperta e recitò a bassa voce la formula. Una flebile luce verde illuminò la figura del ragazzo, per poi scomparire dopo pochi attimi. « Adesso che ti ho lanciato questo incantesimo, non ti conviene trasgredire alcuna regola » sospirò Maeve, passandosi una mano tra i capelli castani; sapeva di star esagerando, ma mettergli un minimo di angoscia era la tecnica migliore, « Potrebbe rivelarsi fatale » Fece per andare via, ma si fermò davanti alle sbarre. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, di pensare al suo ruolo, che la sua amata gente contava su di lui, di proteggerli dalla guerra e aiutarli a ritrovare la pace. Ma non riuscì a dire nulla. Se ne andò, in silenzio, esattamente come era arrivata. In silenzio, e con un peso sul cuore.

    • • •

    Come era prevedibile, il giovane generale si era rifiutato di aiutarli. Le paure di Maeve erano diventate realtà, ed ora il prescelto di Manaar era un ragazzino irresponsabile e cocciuto. Non si era presentato al consiglio di guerra come gli era stato ordinato, al quale anche la principessa aveva partecipato, e aveva visto con i suoi stessi occhi che la sedia destinata al giovane era rimasta vuota. Era una chiara dimostrazione di quanto poco gli importasse del destino di Thyandul, che ora risiedeva anche nelle sue mani. Percorse a grandi falcate i lunghi corridoi del palazzo ed uscì dirigendosi verso l'accampamento dell'esercito: suo padre aveva fatto spostare Cain in una tenda come se fosse un comune soldato, ma a differenza di esso veniva scortato notte e giorno da una manciata di guardie. Era raro che si arrabbiasse così, solitamente era una persona pacata e ragionevole, ma l'atteggiamento del ragazzo la mandava su tutte le furie. Stava mettendo in gioco il destino del suo regno e non poteva accettare che uno sconosciuto potesse fare ciò che voleva mettendo a repentaglio il benessere dei suoi cittadini. Stava attraversando il giardino quando lo vide, di spalle, appoggiato ad un tronco, a prendersi cura della sua spada. Non si aspettava fosse di certo Yeosin, la quale era invece stata abbandonata in un angolo, vicino alla tenda di lui. Digrignò i denti, sollevando l'orlo del vestito con un gesto rabbioso, che la portò anche a portarlo un po' troppo su, ed affrettò il passo. « Cos'è, non sei venuto al consiglio perché dovevi farti un sonnellino? » gridò in lontananza, ma solo quando gli si parò davanti afferrandolo per il colletto della camicia, impedendo al ragazzo di reagire, si rese conto di quanto avesse bisogno di prenderlo a pugni. « Oppure perché non te ne frega niente di noi, eh? » finalmente poteva gridare, e non pregare in silenzio o esprimere pacatamente le sue opinioni. Adesso, quello che pensava glielo poteva urlare direttamente a due centimetri dalla sua faccia da schiaffi. « Volevi farci sapere che non te ne frega nulla? Benissimo, il messaggio ci è arrivato forte e chiaro! » la presa sui vestiti di Cain si faceva sempre più forte, e ormai le unghie le si erano conficcate nella carne. Faceva male, ma non più male di sapere in che guaio si erano andati a cacciare. « Capisco che la cosa ti abbia scombussolato, non vuoi combattere per un regno che non è il tuo, mi offrirei io al tuo posto per lottare per il bene della mia gente » disse tutto d'un fiato, lo sguardo carico d'ira. Lasciò andare la presa, alzandosi e allontanandosi dall'albero per dirigersi verso la tenda del ragazzo. « Ma indovina? » chiese, quasi ridendo, dando un calcio alla spada sacra facendola finire ai piedi di Cain. « Questa spada si lascia maneggiare solo dai prescelti che, nel nostro caso, è un tizio irresponsabile e senza spina dorsale » si avvicinò di nuovo e stavolta prese la spada, conficcando con fatica la lama nel tronco una spanna sopra la testa del ragazzo. Maeve si inginocchiò alla sua altezza, il respiro pesante e le labbra serrate. Voleva ancora prenderlo a pugni. « Mi farei carico delle tue responsabilità se potessi, ma pensi che sottostare agli ordini di Greil sia meglio che proteggere dei cittadini innocenti? » sibilò, « Tu potresti essere colui che porterà pace ed equilibrio, ma a giudicare da come ti comporti, sei solamente un codardo » si rialzò in piedi, delusa, arrabbiata, sentiva di non essere riuscita ad esternare tutta l'ira che aveva dentro. « Ci hanno appioppato un eroe vigliacco » e, pensò, che nella stessa frase queste due parole non potevano starci. Lui, il titolo di eroe di Thyandul, non se lo meritava.

    « Parlato » || - Pensato -

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    Edited by altäir - 28/2/2019, 15:38
     
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    Cain Noller
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    L'alba di un nuovo giorno, il tramonto di una giovane vita.
    La piazza principale gremiva di una folla animata e rabbiosa. Urla e strepiti incitavano a terminare il prima possibile l'esecuzione: a quanto pare erano veramente tante le persone che avrebbero ardentemente desiderato vedere il principe Cain Noller giustiziato in pubblica piazza. Purtroppo non li biasimava, nessuno di loro, neanche quelli che, come fosse un fenomeno da baraccone, gli lanciavano uova e vegetali andati a male. Nel corso della sua giovane vita aveva ucciso talmente tante persone che, ormai, aveva perso il conto. Soldati, civili... persino donne e bambini. Tutto questo perché? Per compiacere un essere che, per lui, non provava alcun sentimento se non ciò che si prova nei confronti di un oggetto qualsiasi. Un groppo gli attanagliò la gola, costringendolo a deglutire a fatica a causa della pressione esercitata dalla corda al collo. Alzò lo sguardo all'orizzonte davanti a sé, mentre lacrime calde gli pungevano ai lati degli occhi: era finita, e forse era giusto così.
    La guardia controllò il nodo a cappio attorno al collo del ragazzo, assicurandosi che fosse ben fisso, per poi segnalare ai reali, con un gesto, che l'esecuzione poteva avere inizio.
    Non era la morte a spaventare Cain: l'aveva vista in faccia innumerevoli volte in battaglia, a questo punto la vedeva come un'amica che gli avrebbe permesso di espiare i peccati di una vita vissuta seguendo, non i propri ideali, ma quelli imposti da un terzo. Gli avrebbe tolto la "seconda possibilità" esattamente come lui l'aveva tolta a centinaia di persone, ingiustamente.
    L'ennesimo oggetto lanciato dalla folla inferocita gli raggiunse il viso, colpendolo e sporcandogli la guancia. Cain, del canto suo, rimase impassibile, lo sguardo fisso verso quel sole che sembrava volerlo salutare per un'ultima volta.
    Re Ethelbert si alzò dal proprio trono e al contempo la guardia afferrò la leva di attivazione, pronto a tirarla.
    « Fermatevi! »
    Una voce femminile irruppe, sovrastando il silenzio di trepidante attesa al segnale di uccisione « Per ordine di Manaar, fermatevi! », continuò con maggiore enfasi, costringendo la folla a trattenere il fiato, spaventata e curiosa al contempo. Se la dea era stata messa in ballo, quell'interruzione doveva essere veramente allarmante.
    Cosa diavolo sta succedendo? Fu il primo pensiero che attraversò la mente di Cain, mentre lo sguardo vagava spaesato tra la folla, cercando di capire chi avesse parlato. Non ci volle molto perché il suo presunto salvatore si facesse vivo perché, in pochi istanti, affannata e spettinata, una ragazza dai grandi occhi verdi e i capelli castani salì sul patibolo. Era lei, la sguattera del giorno prima.
    « Manaar mi ha mostrato il futuro del nostro regno e quest'uomo... », i loro occhi s'incrociarono per istanti che parvero durare un'eternità « ...avrà un ruolo cruciale. »
    Il cuore di Cain, mancò di un battito.
    Cosa significava tutto questo? Chi era lei? Stava succedendo tutto così in fretta, troppo in fretta! Sentiva la testa girare e non capiva se la causa era tutta la confusione che aveva in testa o semplicemente la mancanza di aria, dovuta alla corda troppo stretta attorno al collo.
    Le persone che prima urlavano adirate insulti ora parlottavano tra di loro, visibilmente sdegnate.
    La testa di Cain si annebbiò al punto che riuscì a carpire solo alcune parti del seguente discorso della ragazza, come la "prova di Yeosin". Respirò profondamente, cercando di ossigenare il cervello e riprendere il più possibile lucidità mentale. Provò a fare mente locale, facendo leva su tutte le informazioni di cui disponeva, ma inutilmente. Non aveva idea di cosa fosse questa Yeosin né di quale prova si trattasse.
    « ...e lui dovrà schierarsi con Thyandul e giurare fedeltà al suo re e alla sua dea! E' questo il volere di Manaar. »
    Quest'ultima frase lo travolse emotivamente con la stessa violenza di uno tsunami. Come se il cappio al collo e le mani legate non bastassero si sentì un animale in gabbia, impotente sotto la possente stretta di un qualcosa ben più grande di lui. Per Cain il volere della dea Manaar poteva benissimo andare al diavolo, non avrebbe collaborato con nessuno, tanto meno sotto ordine di una dea di cui aveva sentito parlare per la prima volta.
    Stava per gridarlo, lì, davanti a tutti, quando improvvisamente il brusio della folla si accese, diventando un forte vociare. Si sentì afferrare per le spalle, mentre una guardia gli allentava il cappio alla gola. Venne stretto nella possente presa di due guardie e trascinato giù dal patibolo, per poi essere accompagnato in mezzo alla folla, verso la strada principale, scortato da un seguito di guardie vigili e civili irrequieti. Forse era stato salvato da morte certa ma il futuro che lo attendeva non sembrava particolarmente roseo.

    ⋘ ⋙

    « Avvicinati e afferra la spada. », gli intimò con aria truce re Ethelbert, indicando con un ampio gesto una teca di vetro. Era ricoperta di rovi neri e intricati, a malapena si riusciva a vedere attraverso.
    Cain era spaventato, confuso, non sapeva cosa stesse accadendo.
    Era stato liberato da corde e manette in metallo, ma alle sue spalle un muro di guardie armate fino ai denti lo minacciavano con spade pronte a essere sfoderate. Sfidarli era un suicidio, l'unica opzione ragionavole al momento era assecondare le loro strane richieste.
    Esalò un profondo respiro, per poi fare qualche passo verso la custodia ricoperta di tetra vegetazione. Improvvisamente gli parve di notare che qualcosa stava cambiando: i rovi si ritraevano a ogni suo passo, strisciando come serpenti. Si fermò con il cuore in gola. Cosa significava? Da quando in qua la vegetazione si muoveva a proprio piacimento?
    Alle sue spalle tutti, persino i reali, stavano col fiato sospeso, attendendo una mossa del giovane.
    Cain deglutì, cercando di eliminare quel groppo che stava attanagliandogli la gola. Fece un altro passo, poi un altro ancora, posizionandosi davanti alla teca in vetro, finalmente libera da quei rovi che ora, serpeggianti, avevano liberato la visione dell'arma divina. Era una spada bastarda a due lame, dalle fattezze eleganti e sofisticate, con una pietra celeste sul pomo che, quasi, sembrava brillare di luce propria. Osservandola nel dettaglio sull'elsa vi erano delle incisioni in una lingua che Cain non riusciva a capire. Rimase qualche istante immobile a guardare quell'arma che quasi sembrava chiamarlo. Era una sensazione strana, come se qualcosa dentro la sua testa lo stesse spronando a brandirla. Allungò la mano, e nell'istante in cui la sua pelle entrò in contatto con il freddo metallo dell'elsa una luce accecante lo travolse. Quando si spense dei rovi non vi era più traccia: erano divenuti bellissimi rami rampicanti coperti da fiori bianchi.
    Spaventato, Cain abbandonò la spada, indietreggiando, mentre alle sue spalle la folla allibita tratteneva il fiato. Il giovane si voltò posando lo sguardo sulle persone che fino ad ora avevano seguito col cuore in gola ogni sua mossa. L'aria era densa di frustrazione: alcune donne, incredule, si coprivano il viso piangente, mentre altri uomini si limitavano a scrutare la figura di Cain con sguardo sconfortato, scuotendo lentamente la testa come a dire "non è possibile".
    Il cuore di Cain prese a battere fortissimo. Abbassò lo sguardo sulla propria mano, quella che prima aveva afferrato la spada, chiedendosi "Perché? Perché, tra tutti, proprio io?"

    ⋘ ⋙

    Come prevedibile la decisione di Manaar non venne presa particolarmente bene. Da nessuno. Il popolo perse fiducia nella propria dea, e persino i soldati smarrirono ogni stimolo che li spingeva ad andare avanti e a proteggere la propria cittadina. La situazione era più grave di quanto ci si potesse immaginare
    Dopo la scoperta Cain era stato spedito in gattabuia. Nessuno si aspettava che fosse veramente il "prescelto della dea", tutti, persino i consiglieri e gli strateghi più preparati erano stati presi alla sprovvista e la soluzione migliore che avevano potuto trovare era una: prendere tempo. Perciò per giorni il giovane venne lasciato a marcire in una cella della prigione, fino a quando, un giorno qualcuno si fece vivo.
    « Ehi generale. »
    Cain, seduto a terra, con le spalle contro al muro riconobbe la voce e provò una forte sensazione di rigetto. Nonostante fossero passati giorni e avesse avuto tutto il tempo metabolizzare la cosa, provava nei confronti di quella ragazza una profonda repulsione. L'aveva salvato, sì, ma per imprigionarlo e costringerlo a lavorare per loro. Si voltò dalla parte opposta, sdegnato, mentre un "clanck" metallico risuonava nel silenzio della cella. La porta si aprì cigolando, e pochi istanti dopo Cain si sentì afferrare per le braccia, forte, e strattonare verso l'alto. Venne fatto alzare e di nuovo, com'era capitato giorni prima, i suoi occhi color ghiaccio incrociarono quelli verde smeraldo della principessa, sacerdotessa o quello che è.
    La presa alle spalle si fece improvvisamente più salda, come se le guardie alle sue spalle lo tenessero con l'intenzione di bloccarlo, e non solo sostenerlo. Vide la mano della principessa avvicinarsi al suo petto e prima che riuscisse ad aprir bocca venne investito da una luce verde. Fisicamente non sentì nulla se non un lieve pizzicore in mezzo al petto, per capirci nell'esatto punto in cui era posizionata la mano di Maeve - o almeno così credeva si chiamasse.
    Nell'esatto momento in cui stava per chiederle cosa gli avesse fatto, lei lo precedette « Adesso che ti ho lanciato questo incantesimo, non ti conviene trasgredire alcuna regola... »
    Incantesimo? Regola? In quell'esatto istante capì cosa gli era appena accaduto e il segno sul suo petto - somigliante a una runa celtica - non fece altro che confermare la sua teoria: era stato sigillato.
    « ...potrebbe rivelarsi fatale. »
    Quelle ultime parole risvegliarono in lui una rabbia prorompente. Non gli importava delle guardie, in quel momento voleva soltanto metterle le mani a dosso.
    « MALEDETTA STREGA! », gridò, cercando di divincolarsi dalla presa delle guardie. Diavolo, quanto avrebbe pagato per poterle assestare un pugno su quel bel visino.
    « Raffredda i bollenti spiriti, ragazzo! », lo riprese la guardia di destra, un uomo sulla quarantina con dei folti baffi, strattonandolo « Colei che osi chiamare "strega" ti ha salvato dall'impiccagione. », continuò « Mostrale il dovuto rispetto. »
    Le parole dell'uomo non lo toccarono minimamente. La rabbia bruciava ardente dentro al suo petto, ora forse più di prima.
    « Mai. », sibilò a denti stretti, osservando la figura scura di Maeve da dietro le sbarre con gli occhi ridotti a due minacciose fessure.

    ⋘ ⋙

    Seduto con la schiena premuta contro un albero, Cain lucidava accuratamente la sua cara, vecchia spada. La lama non era più tagliente come una volta, per quanto venisse affilata regolarmente, e in più era piena di bozzi. Piccoli pezzi di lama erano volati via e il piatto, nonostante i differenti oli utilizzati, finiva per ossidarsi sempre più spesso. Nonostante tutto però, Cain non l'abbandonava. Era la sua spada, il prolungamento del suo braccio. Probabilmente non l'avrebbe lasciata andare neanche una volta rotta: avrebbe provato a salvarla anche a costo di spendere tutti i suoi risparmi.
    Rigirò l'arma alla luce, controllando il livello di lucidità: riusciva quasi a specchiarcisi, era a buon punto.
    A un certo punto, una voce adirata. Sentì il sangue ribollirgli nelle vene mentre gli occhi roteavano come a dire "ci risiamo". Si impose di ignorare chiunque gli si fosse avvicinato, perciò abbassò lo sguardo e tornò alla sua lama, almeno finché una mano non lo strattonò per il colletto. Si ritrovò quindi costretto ad alzare lo sguardo e a incrociarlo con quello adirato della principessa. Non la vedeva dal giorno in cui era stato sigillato e sinceramente non aveva alcuna voglia di averci niente a che fare. Provò il forte istinto di ribellarsi alla presa ma una strana sensazione lo bloccò: era come se un macigno gli gravasse sopra. Voltò lo sguardo, notando che le guardie di turno lo stavano osservando con aria vigile e severa, come a dire "fai un passo falso e la paghi". A questo punto Cain si impose di rimanere in silenzio, magari ignorandola si sarebbe allontanata... e invece no. Pur rimanendo in silenzio la ragazza continuò a parlare, iniziando un monologo che sembrava non avere mai fine. Era arrabbiata, al punto da calciare la spada divina Yeosin.
    Cain, del canto suo, rimase impassibile durante tutto il suo discorso. Non battendo ciglio neanche durante il raptus di rabbia in cui la divina Yeosin finì incastrata nell'albero, pochi centimetri sopra il suo viso.
    Cain attese che Maeve sputasse il suo veleno, tutto quanto. Fatto ciò si sollevò in piedi, sbatté via le foglie dal mantello con non chalance e la guardò dritta negli occhi. Quindi si avvicinò e le porse la mano destra.
    « Guarda. », fece, incitandola a osservargli il palmo. Era una mano grande, forte e callosa, tipica di un soldato.
    « Le mie mani sono coperte di sangue, il sangue degli stessi innocenti che tu mi stai chiedendo di salvare. Sono mani di assassino. », nel dire la parola "assassino" le dita si chiusero a pugno, in una forte stretta.
    « La mia strada non prevede ritorno, è un abisso dal quale nemmeno la tua dannata dea saprebbe salvarmi. », continuò, mettendo una certa enfasi nella parola "dannata", giusto per farle capire subito ciò che pensava nei confronti delle divinità e in particolar modo di Manaar.
    Detto ciò, fece per andarsene. Superò Maeve, avviandosi verso la tenda, senza però prima togliersi lo sfizio di colpirla con una "involontaria" spallata.
    « Scegliere me come eroe... tsk! », disse fra se e se, a voce alta, in modo che anche Maeve potesse sentirlo « ...la vostra dea deve essere proprio uscita di senno. », fece poi con tono derisorio, scuotendo la testa.
    THEY SAY THAT I MUST LEARN TO KILL BEFORE I CAN FEEL SAFE, BUT I, I'D RATHER KILL MYSELF THAN TURN INTO THEIR SLAVE.
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    Edited by rhænys` - 25/3/2020, 12:13
     
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    « Staring up the road, Sick of the darkness and the cold, The chains are wearing thin, I'm fighting for us both, I built this wonderland Drenched in the colors of your skin »
    Maeve era furibonda, e vedere Cain reagire in modo così tranquillo era umiliante. Perché non gridava, così, a pieni polmoni, come stava facendo lei? Non era più facile urlarle in faccia che del suo regno non gliene importava nulla perché non apparteneva a quelle terre invece di tirare fuori la storia che ormai il suo destino era già scritto? Una scusa trita e ritrita, che poteva convincere chiunque ma non lei. Maeve, che sapeva cosa significava ribellarsi al suo destino, non si soffermò a studiare il palmo del giovane a lungo, perché sapeva che era una bugia che qualcuno gli aveva raccontato o che lui stesso continuava a dirsi. « La penso esattamente come te », fece, mentre Cain le dava le spalle diretto alla sua tenda, « Anche io credo che a Manaar sia andato di volta il cervello ». Aveva sempre riposto la fiducia nelle mani della dea della luce, e in quel momento non era da meno, solo che tutti, compresa lei, sacerdotessa della dea, si domandavano come fosse possibile che un tizio che non voleva avere nulla a che fare con il loro regno potesse essere il suo prescelto. Il futuro che aspettava Thyandul e gli altri regni non era roseo e Cain sembrava non essere toccato da questo. Il che la mandava in bestia. Sarebbe potuto morire anche lui nella guerra che re Greil stava cominciando, ma suo figlio, che si trovava davanti a lei e gli dava le spalle, non avrebbe fatto nulla. Perché il suo destino era già scritto, dove? Nel palmo della sua mano? La stessa mano che poteva scegliere contro chi puntare la spada? « Tu però sei ancora più stupido, perché ti nascondi dietro una scusa mediocre » fece qualche passo verso di lui, ma il ragazzo continuò imperterrito a camminare verso la tenda, deciso a far cadere il discorso. Andasse al diavolo. « Il tuo destino è già stato scritto? Ma per favore. Beh, questa potrebbe essere una possibilità per redimerti, e guardati, non stai facendo niente ». Si fermò sul posto, inutile inseguirlo. Era convinto dei suoi pensieri, era come parlare con un muro e Maeve continuava a sbatterci la testa. Cain stava mandando il suo popolo in guerra senza nessuno su cui contare e non se ne rendeva conto. Re Ethelbert aveva la sua età e l'erede al trono, giovane e coraggioso, non poteva più affrontare nessuna guerra. Rimaneva solo lei, che doveva fingersi qualcun'altro per non incorrere nell'ira della famiglia reale e dei nobili, ma nessuno dei soldati avrebbe dato retta a quella che sembrava un'umile cittadina di Xanturion. « Tu hai scelto il tuo destino, non viceversa ». Sospirò con rabbia, voltandosi verso il tronco in cui aveva conficcato Yeosin. Ripensandoci, non era stato un degno comportamento da parte della sacerdotessa di Manaar, come se la stesse dissacrando. Si ripromise di pregare una volta al tempio, l'indomani, mentre delle nuvole coprivano il sole, gettando ombra sull'accampamento. « Dimmi almeno che Thyandul non è la tua terra e, di conseguenza, te ne freghi », fece qualche passo indietro, « ma evidentemente preferisci rimanere a guardare mentre tutto crollerà a causa della follia di Greil, senza neanche cercare di opporti ». Si allontanò, richiamando le guardie a sé. Sentiva i loro passi pesanti qualche metro dietro di lei, e un pesante peso sul cuore. Lo avrebbe fatto lei, non importava che non riusciva a maneggiare Yeosin. Avrebbe combattuto in prima linea con la sua semplice spada d'acciaio, con o senza le sembianze di Dawn. Avrebbe protetto lei il suo regno, insieme ai soldati che sentivano di appartenere a quella terra. Non avevano bisogno di un eroe come lui.

    « Parlato » || - Pensato -

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    Credeva fermamente che quel palmo non avesse nulla di umano, se non l'aspetto. Quante volte si era sporcato le mani con il sangue di innocenti, gli stessi innocenti che ora avrebbe dovuto salvare. Bambini, donne, vecchi, non aveva mai avuto pietà per nessuno... e ora, improvvisamente, gli si chiedeva di diventare l'eroe di turno? No, non era giusto. Come aveva più volte detto anche la principessa c'erano sicuramente persone migliori, là fuori, che avrebbero potuto prendere il suo posto. Persone con la coscienza pulita e non come la sua, nera come la pece.
    « Il tuo destino è già stato scritto? Ma per favore. Beh, questa potrebbe essere una possibilità per redimerti, e guardati, non stai facendo niente. »
    Aveva appena scostato il tendaggio dell'entrata, quando quella frase lo bloccò sul posto. Per un istante pensò veramente che forse sarebbe potuto cambiare, che l'assassino avrebbe potuto davvero redimersi. Ma poi i volti delle persone a cui aveva tolto la vita cominciarono a sfilare nella sua mente, uno dopo l'altro. Come poteva un mostro del genere riscattarsi?
    Urla, lamenti e grida di dolore gli attraversarono il cervello catapultandolo in uno dei tanti ricordi dolorosi.
    « Tu hai scelto il tuo destino, non viceversa. »
    Era ancora immobile, di spalle davanti alla porta d'entrata alla tenda quando quella frase lo scaraventò violentemente fuori da quei pensieri funesti, riportandolo alla realtà. Una stretta al petto lo sorprese improvvisamente, come se, con quelle parole, gli avesse chiuso il cuore in una morsa. L'orgoglio cominciò a bruciare, mentre una frase profilava nella sua mente: ha ragione. Era stato Cain a decidere di seppellire i propri ideali per compiacere il padre, nessuno lo aveva obbligato a uccidere delle persone. Era stato il suo braccio a puntare la lama contro civili innocenti, era stato il suo cuore a dargli la forza di affondare e privarli della vita. La colpa era tutta sua.
    Per un attimo, ma solo per un attimo, pensò che morire sarebbe stata un'opzione meno dolorosa, perché tutto ciò che andava affrontando lo stava mettendo davvero a dura prova.
    Con il cuore sanguinante ed il cervello in confusione entrò in tenda. Nascosto dallo sguardo di terzi si sedette sulla branda, chinandosi e portando una mano alla fronte per massaggiarla. Bene, ora gli era pure presa una forte emicrania, maledetta ragazzina.
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