Luck of the King

a sort of soulmates au

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    Noel era innamorato di un angelo, nel vero senso del termine: chioma color grano, iridi splendenti, un sorriso da far rimanere senza fiato. E un marchio che constatava chiaramente che non erano fatti l'uno per l'altra. Non sarebbe mai riuscito a scordare il momento in cui, durante una placida serata passata a casa sua, la pioggia che batteva forte sul vetro delle finestre delle quali si era scordato di chiudere le persiane, Evelya si era tirata su le maniche della felpa che lui le aveva prestato, rivelando il tatuaggio che avrebbe condotto la ragazza dalla sua anima gemella. Che evidentemente non era lui.
    Sul braccio di Noel non figurava nessuna costellazione da completare: la sua pelle era candida, qualche neo qua e là, le cicatrici causate dai duri allenamenti con la spada e i segni delle bruciature di una notte che avrebbe voluto dimenticare, ma nessuna stella. Non gli era mai comparso alcun marchio, e ormai aveva perso le speranze: non gli era mai pesato molto, a dire la verità. Era amico di tutte e di nessuna, gli piaceva flirtare occasionalmente con qualche ragazza che aveva colpito la sua attenzione e divertirsi un po', e le sue ex non avevano dato molto peso al fatto che lui non fosse l'uomo destinato a loro. Si era innamorato varie volte, altrettante aveva visto il marchio di altre ragazze e aveva sospirato al pensiero di non poter essere la metà mancante di nessuno, ma al contempo poteva essere la metà mancante di chi voleva lui, senza nessun vincolo dettato da cazzate come il destino, il fato, o chi per lui. Poteva quasi dirsi sollevato da non avere una costellazione a metà sul suo corpo, nessuno da conoscere per forza perché il destino aveva deciso così, che sicuramente sarebbero stati felici insieme ancora prima di sapere l'uno il nome dell'altro. Noel poteva fare quello che gli pareva, decidere di chi innamorarsi e non aveva nessun obbligo. Eppure, mai aveva desiderato così tanto avere un marchio impresso a vita sul suo corpo, per completare quello di una persona in particolare. Ricordava anche come aveva stretto la tisana bollente, finendo per scottarsi, incurante del dolore. Il calore non era riuscito a distrarlo da quelle sette stelle, di un celeste chiaro che risaltava comunque sulla carnagione diafana di lei.
    Non era comunque riuscito a dimenticarla, e probabilmente si era comportato nel modo più egoista possibile: aveva fatto di tutto per farla innamorare di lui, che non era la sua anima gemella. Anche senza marchio si sarebbe capito benissimo: erano l'uno l'opposto dell'altra, lei cresciuta in un enorme castello, pacata e coraggiosa, lui rinnegato dalla sua famiglia, chiassoso ed impulsivo. Persino il loro aspetto sottolineava le loro differenze, facendoli apparire come pezzi di puzzle incastrati male piuttosto che una coppia felice. Anche in quel momento, distesi sul divano davanti alla tv, le gambe di lei attorcigliate alla sua e il viso sul suo petto, non riusciva a non pensare al fatto che l'avesse privata di un futuro felice, di un futuro fatto di certezze. Noel le spostò una ciocca di capelli dal viso, evitando che le desse fastidio, mentre i dialoghi di una serie tv scelta a caso tra i consigliati di Netflix continuavano a fare rumore in sottofondo. I turni da Annery la facevano arrivare sfinita a fine giornata, e si faceva spesso vincere dal sonno prima che scoccasse la mezzanotte. Sorrise inconsciamente nel guardarla dormire, mandando indietro l'episodio fino a recuperare il punto in cui aveva smesso di seguire, e indugiò sul farlo ripartire quando sentì le mani di Evelya stringere il tessuto della sua maglietta. Il suo sguardo cadde di nuovo sulla compagna, rannicchiata su di lui, e le sollevò la coperta che copriva entrambi fino alle spalle, mentre il piede di lui rimaneva scoperto di conseguenza. Evelya indossava ancora la maglietta a maniche corte con cui era andata a lavoro, era ovvio avesse freddo a quell'ora della sera.
    Nel rimboccare la coperta, Noel intercettò il tatuaggio di lei, le sette stelle azzurrine che ancora lo ossessionavano, per poi adagiarla sulle sue spalle e circondare la ragazza con un braccio all'altezza delle scapole, coprendolo alla vista. Ai tempi, aveva addirittura cercato su internet di che costellazione si trattasse – non era molto pratico di astri e compagnia a dirla tutta – e la sua memoria fotografica non lo aveva deluso: tra tutte e 88 – ottantotto, sul momento gli era preso un colpo – aveva riconosciuto la parte sinistra dell'Aquario, e per uno strano scherzo del destino mancava, tra le altre stelle, proprio Sadalmelik, l'astro di cui portava il nome, la fortuna del re. Tracciò a mente il marchio di Evelya, le stelle che si sovrapponevano al viso di un attore famoso ma di cui non ricordava il nome sullo schermo. Lo aveva maledetto così tante volte, che ormai conosceva quella dannata costellazione a memoria. Evelya, figlia prediletta dagli occhi dorati, avrebbe trovato nella sua anima gemella anche Sadalmelik. E Noel portava, sì, il nome di una stella, ma non era quella a cui era destinata lei. Non sarebbe mai stato la sua Sadalmelik, mentre Evie, oh, lei era tutto ciò che aveva sempre desiderato e molto di più.
    Il ragazzo fece scorrere le dita tra i capelli di lei, pettinandoglieli delicatamente, il suo respiro che si faceva sempre più pesante. Chissà se era felice. Glielo chiedeva spesso, e lei rispondeva sempre di sì, e sul momento se ne convinceva anche lui. Glielo leggeva negli occhi, nel tono che utilizzava, come lo baciava subito dopo. Non mentiva, ne era consapevole. Ma in quei momenti di silenzio, per lui che viveva nel caos e aveva sempre bisogno di qualcosa da fare, senza che neanche lei li riempisse, la sua testa era piena di dubbi. Era davvero un egoista, perché piuttosto che scoprire chi fosse l'anima gemella della sua ragazza avrebbe preferito un intero tirocinio con Lyander – tra le migliori opzioni.
    Ormai la serie stava andando avanti senza che nessuno la guardasse, Noel intento ad osservare il viso di Evelya illuminato dalla luce soffusa di una lampada in un angolo senza però vederlo davvero.
    « Ehy, Evie », disse sottovoce, spostando l'attenzione sul soffitto, la nuca appoggiata al braccio del divano. Sapeva che non l'avrebbe mai ascoltato, ed era un sollievo che stesse dormendo. Perché all'ennesima domanda sempre uguale, sempre la stessa, chiunque avrebbe sbottato. « Pensi davvero di essere felice con me? ». Un brivido lo percorse quando sentì la ragazza muoversi e riportò immediatamente lo sguardo su di lei, gli occhi sbarrati per paura di averla svegliata. Non sembrava essersi accorta di nulla e sorrise tra sé e sé, continuando ad accarezzarle i capelli. Avrebbe voluto fregarsene di tutta quella storia delle anime gemelle come aveva fatto fino a quando non aveva conosciuto lei, perché sentiva di star impazzendo. Sapere per certo che non erano destinati a stare insieme e c'era qualcuno di più adatto a lei là fuori, all'esterno di quelle quattro mura che li vedeva dormire abbracciati, cucinare insieme e ridere a crepapelle lo mandava in bestia. Magari qualcuno coi capelli chiari come i suoi, più tranquillo, più ragionevole, con qualche soldo in più in tasca e due gambe tutte intere. Eppure lui sentiva di essere suo, suo soltanto. Il suo marchio non esisteva perché la sua anima gemella era promessa a qualcun altro, due esseri umani tra i quali Noel si era messo in mezzo, prendendosi gioco del destino. Evelya stessa gli disegnava sul braccio la metà mancante della sua costellazione, utilizzando una penna blu – era attenta ai dettagli – e guardarla ridere mentre affiancava i due disegni lo faceva sentire bene, come se fosse davvero lui la sua stella fortunata. A quel pensiero, Noel sollevò appena il braccio che abbracciava le spalle della compagna e il disegno sbiadito del marchio fece apparire un sorriso accennato sul viso stanco. Non avrebbe mai avuto un marchio vero e proprio, ma quello fatto a penna da Evelya gli bastava ed avanzava. Funzionavano bene anche senza di esso.
    La pelle di Noel era candida, qualche neo qua e là, le cicatrici causate dai duri allenamenti con la spada e i segni delle bruciature di una notte che avrebbe voluto dimenticare, e stelle disegnate, tracce di lucidalabbra quando Evelya lo salutava prima di scendere dal bus, i segni delle sue unghie quando gli grattava la schiena in punti in cui da solo non arrivava, le mani fredde che gli posava sulle guance quando era di cattivo umore. Gli sarebbe bastato, era più che abbastanza.
    Il ragazzo mise di nuovo pausa quando sentì Evelya tirarsi su leggermente e guardarlo interrogativa, come se non si fosse neanche resa conto di essersi addormentata. « Buongiorno angioletto. » Noel ridacchiò mentre lei gli chiedeva scusa, e le posò un bacio leggero sulla fronte, la frangetta di lei a pizzicargli il naso. « Cosa mi sono persa? » chiese lei, guardando la televisione tentando di ricordare a che punto fosse arrivata prima di assopirsi, cullata dal calore della pelle di Noel e il suono della tv a farle da ninna nanna.
    « Prima ti do un bacio. » fece il ragazzo, senza rispondere alla sua domanda, ed Evelya gli rivolse uno sguardo confuso. La vide sorridere e annuì, e lui si avvicinò, catturando le sue labbra in un contatto dolce e senza pretese. Finché lo avrebbe baciato in quel modo, sarebbe andato tutto bene, al diavolo le anime gemelle, al diavolo le infinite ricerche su internet per capire quale fosse la costellazione sul braccio di Evelya, al diavolo il suo braccio nudo e i suoi mille dubbi, al diavolo le persone che non riuscivano a trattenersi dal guardarli insistentemente quando notavano che non erano fatti per stare insieme: non avrebbe rinunciato a quella felicità per nulla al mondo.
    « Non so cosa sia successo, ho dormito un po' anche io. »,
    « Rimettiamo da dove ci siamo addormentati? Poi magari andiamo a dormire. », « Va bene. Ti ricordi come si chiama questo attore? E' famoso, l'ho già visto da qualche parte... », « E' scritto sotto il titolo della serie, su “cast”. », « … Ah. Sì, lo avevo notato, ovviamente, era per vedere se... ». Evie rise. Era più che abbastanza.
    Look at the roses in your garden, You can breathe now and forget

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    Edited by altäir - 18/9/2020, 11:02
     
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    Da quel che Altayr ricordava, era sempre stata amica di Kevin ─ o Kev, come preferiva farsi chiamare lui, e come lei l'aveva sempre chiamato. Giusto il tempo di aiutarla a far scappare a gambe levate i soliti bulletti che si divertivano a prenderla di mira ed Altayr – a quel tempo gracile studentella di dieci anni o poco più, non ricordava con precisione – si era ritrovata con un amico. Un vero amico stavolta. A quanto pare, il ragazzo, l'aveva subito presa in simpatia e non ci fu un giorno passato senza averlo intorno.
    Altayr ricordava anche come le camicie di Kev profumassero sempre di lavanda, un profumo all'inizio stucchevole, ma col tempo ci aveva fatto l'abitudine: era inevitabile non coglierlo durante il tragitto casa – scuola o in uno dei loro soventi incontri. Profumava di buono, le piaceva, era rassicurante. Ricordava che l'aveva sempre accompagnata a casa e come nelle gare di corsa per arrivare al cancello vinceva sempre lei, perché a furia di allenarsi nel combattimento – rigorosamente all'insaputa di Mira ─ e dare una lezione a quei deficienti che ancora non si erano stancati di isolarla e farle andare il sangue al cervello ogni volta che alludevano al passato di sua madre o al suo essere un errore stavano dando i loro frutti. Ricordava anche la faccia che aveva fatto quando gli aveva mostrato le sue ali da aquila – proporzionate al suo corpo da bambina, ma ugualmente maestose. Ricordava il suo gusto di gelato preferito – fragola, per i più curiosi ─ e l'afa dei pomeriggi estivi passati davanti al ventilatore, o di quando Kevin le aveva dato i suoi guanti preferiti mentre stavano andando a scuola, e solo in quel momento notò come le mani del ragazzo fossero molto più grandi delle sue.
    Le gambe di Kevin si fecero più lunghe col passare del tempo, si lasciò crescere i capelli – lisci, biondi, tutte le ragazze della loro classe glieli invidiavano ─ e il suo fisico cominciò a tonificarsi. Era cresciuto anche in altezza, e non di poco, lo aveva notato durante i tornei di pallavolo tra scuole a cui entrambi partecipavano, o anche quando camminavano fianco a fianco o dal fatto che lui riuscisse ad arrivare allo scaffale più alto del supermercato, al contrario di Altayr che riusciva a sfiorarlo solo alzandosi in punta di piedi.
    Era pure un genietto, Kevin, mentre Altayr era convinta di non essere particolarmente portata per lo studio. L'amico l'aiutava come poteva, e lei cercava di portare a casa dei risultati che le garantissero di passare all'anno scolastico successivo. Ci riusciva sempre, e vedere il sorriso di sua madre ogni volta che le comunicava il risultato di un compito era la più grande delle soddisfazioni. Eppure, la sua vita a scuola non era delle più facili, ma non se la sentiva di parlarne con sua madre, la sua fedele confidente. L'avrebbe solo fatta soffrire. Kevin fu l'unico a rimanergli vicino sempre e comunque, anche quando le dicerie sul suo conto si diffondevano tra gli studenti, la maggior parte di loro la evitavano e i teppisti della scuola la mettevano con le spalle al muro ogni volta che la incontravano da sola in corridoio. Altayr non aveva mai avuto paura né di loro né della solitudine: era abituata ad affrontare entrambe le cose e, per quanto facesse male, aveva imparato a farsi scivolare la cattiveria altrui addosso. Eppure, sapere che Kevin l'avrebbe in ogni modo aspettata al cancello della scuola per tornare a casa e passare il pomeriggio insieme le infondeva coraggio. Quella parte della sua vita non sarebbe mai cambiata. Tuttavia, ogni volta che stavano insieme sentiva una fitta al petto, come se l'aria le mancasse, e bastava anche solo che le loro dita si sfiorassero per far accelerare il battito del suo povero cuore. Anche quella parte della sua vita stava cambiando, seppur rimanendo immutata al tempo stesso: avevano sempre studiato insieme, avevano sempre camminato quasi appiccicati, avevano sempre bevuto l'acqua dallo stesso bicchiere. Perché ora lo stomaco faceva le capriole e non riusciva quasi a guardarlo in faccia? Avrebbe voluto indicargli le costellazioni distesi su un lenzuolo nel giardino di casa di lui o insegnargli a suonare qualche canzone semplice con la chitarra senza rischiare un attacco di cuore ogni volta. Aveva paura di tutto quello che ne avrebbe potuto conseguire, a dirla tutta: voleva un bene dell'anima a Kevin, al suo amato Kev, ma sperava solo non si stesse prendendo una sbandata per lui, perché, tutti lo sapevano, era fortemente sconsigliato innamorarsi di qualcuno prima della comparsa del marchio. Già, quello che le comparve sul braccio all'alba dei suoi sedici anni, anche abbastanza tardi rispetto alla media. In quel momento, sì, il terrore la divorò. Non voleva sapere chi fosse, non subito almeno, ma le bastò dirigersi a scuola la mattina stessa per far sì che la parte interna della sua costellazione si tingesse di un marroncino tenue. I suoi occhi incrociarono quelli ambrati di Kevin, che arrotolò le maniche della camicia fino a mostrare il suo marchio. La costellazione dell'Aquila, la sua. Sul suo stesso braccio riconobbe Tarazed, le due Deneb, mentre su quello del ragazzo individuò all'istante Altair. Aveva tatuato la sua stella, la sua costellazione, lei. Anche i bordi del marchio di Kevin viravano verso il verde scuro, e prima che Kevin potesse affiancare i due disegni la ragazza si ritirò, tirando giù le maniche della camicia della divisa che solitamente portava all'altezza del gomito – nonostante fosse ottobre e l'autunno fosse già arrivato da un po'. Ricordava benissimo la faccia dell'amico: sembrava deluso, forse terrorizzato quanto lei, ma più speranzoso, più felice di quella notizia. Al contrario, Altayr non riusciva a capacitarsi di come il destino avesse potuto giocargli uno scherzo simile. Aveva paura dei suoi stessi sentimenti e stava cercando di reprimerli in ogni modo, perché non riusciva proprio ad immaginarsi al suo fianco in quella maniera. Era sempre stato il suo migliore amico, non se la sentiva di compiere un passo così importante.
    « Scusa, non me lo aspettavo » si giustificò lei, non sapendo dove guardare o dove mettere le mani senza dare a vedere il suo disagio.
    « Io un po' ci speravo, invece » fece Kevin, e Altayr sollevò lo sguardo su di lui, gli occhi spalancati. « Come, scusa? » chiese in un filo di voce, sperando davvero che il ragazzo cambiasse la frase, mentre lo stomaco le stringeva tanto da farle male. In che senso ci sperava? - Per favore, non dirmi che sei innamorato di me da tempo, per favore. -. Pregava in silenzio fintanto che Kevin non accennava ad abbassare lo sguardo, e quel contatto visivo sostenuto cominciò a farla innervosire.
    « Faremo tardi ». Altayr si sistemò lo zaino in spalla e distolse lo sguardo, calciando un sassolino per terra mentre un gruppo di studenti con la loro stessa divisa li superavano.
    « Cos'è tutta questa fretta? Non ti ho mai vista così impaziente di andare a lezione. », ridacchiò lui, forse fingendo di non accorgersi di quanto quella situazione fosse pesante per lei.
    « Devo consegnare la relazione di fisica, oggi è l'ultimo giorno, e devo trovare Barden prima della campanella », spiegò con tono calmo, ma appena tornò a guardarlo il suo cuore riprese a battere all'impazzata. Non era sicura se quello fosse perché aveva una cotta per lui che era certa di essere quasi riuscita a sopprimere o perché aveva paura del futuro che li aspettava. Kevin le sorrise di rimando, ricominciando a camminare al suo fianco, come da quando si erano conosciuti. Per la prima volta, fu come se la strada verso l'edificio scolastico fosse infinita, ed Altayr avrebbe voluto solamente salutare Kevin all'entrata e starsene da sola per qualche ora, senza nessuno intorno.

    La pausa arrivò prima del previsto, ma la sua mente era ovunque tranne che in classe: guardò i suoi appunti di letteratura, scarni e disordinati, e chiuse il quaderno mentre si alzava dal banco, intenzionata ad uscire dall'aula prima che Kevin potesse intercettarla. « Se Kevin chiede di me, potresti dirgli che sono andata in bagno? » disse a Noah, il suo compagno di banco, che annuì senza fare alcuna domanda di rimando e lei gliene fu infinitamente grata. Era di poche parole, e quando diceva qualcosa si trattava solitamente di un commento pungente, ma la sua non era una presenza fastidiosa, tutt'altro: con lei si mostrava piuttosto disponibile e a volte le aveva addirittura fatto copiare i compiti, e in più aveva una fidanzata assolutamente adorabile. Altayr vorticò tra i banchi fino a raggiungere la porta e si diresse a passi veloci verso il bagno del piano inferiore, che solitamente erano quelli meno affollati. Scese i gradini in tutta fretta, attenta a non urtare qualcuno e pregando che nessuno avesse avuto voglia di infastidirla, quando si sentì un grido acuto provenire dall'ultima rampa di scale che avrebbe dovuto scendere per arrivare al piano terra. Si affacciò dal corrimano, le sopracciglia aggrottate nella speranza di capire cosa stesse succedendo e, in caso, intervenire. Notò subito due studenti stesi sul pavimento ai piedi delle scale – il piano terra era poco frequentato dato che la mensa si trovava all'ultimo, quindi fu facile dedurre chi avesse cacciato quell'urlo. Da dove si trovava poteva solamente ammirare il didietro di una ragazza e un ragazzo steso sotto di lei. Forse ci era rimasto secco. Scese le scale tenendo lo sguardo fisso su di loro, controllando se Kevin fosse nelle vicinanze con la coda dell'occhio. La studentessa si tirò su esclamando un « Scusami! » acuto quanto il grido di poco prima e quasi la fece sussultare, e riportò l'attenzione su di loro. La fanciulla, dai lunghi capelli biondi e alquanto formosa, sembrava davvero dispiaciuta e preoccupata per il malcapitato che aveva avuto la sfortuna di trovarsi lungo il percorso, ma lui sembrava stesse bene, quindi decise di passare accanto a loro, ignorandoli, per rifugiarsi in qualche angolo del cortile dove magari Kevin non avrebbe potuto trovarla. La sua parte aquila la implorava di uscire all'aria aperta e farsi accarezzare da del venticello fresco. Prima di uscire, tuttavia, buttò un'occhiata alla strana coppia, che ormai si stava rialzando da terra, e le sembrò di riconoscere il ragazzo: mingherlino, alto, capelli scuri e scompigliati e, se il suo udito non la ingannava, le parve di riconoscerne la voce. Inoltre, gli faceva sempre lo stesso effetto: la sua aura non le piaceva affatto, anche a distanza di giorni. Era il ragazzo della pioggia.

    • • • •

    Pioveva, forte, e lei si era completamente dimenticata di prendere un ombrello, ovviamente, come le aveva consigliato sua madre. Voleva solamente andare a dare un occhio al negozio di musica a dieci minuti da casa sua in fondo, cosa sarebbe potuto andare storto? Altayr si rifugiò sotto una tettoia abbastanza grande che aveva attirato altre persone in attesa che smettesse di piovere, e si passò una mano tra i capelli bagnati, togliendosi la frangetta dal viso. Diede le spalle alle altre persone – che sentiva avevano iniziato a parlare fra di loro – e sperò che nessuno di loro facesse caso a lei, che si sporse il minimo indispensabile per studiare il cielo: sopra la sua testa vedeva solo grosse nuvole scure, ma sembrava si stessero muovendo velocemente. La ragazza sbuffò, strofinando le mani sulle braccia nella speranza di riscaldarsi un poco, dato che anche la giacca era fradicia. « Altayr! », a sentir chiamare il suo nome, la ragazza si voltò di scatto alla sua destra – grande errore, perché i suoi capelli, lunghi e bagnati, schizzarono il povero Kevin che le aveva rivolto la parola. « Kev! Caspita, scusami », esclamò lei, portandosi una ciocca dietro un orecchio, come se quell'insulso gesto potesse migliorare la situazione. « Meno male che eri già bagnato da prima ». Per fortuna l'amico ridacchiò al suo tentativo di scuse, mentre Altayr si stringeva inutilmente nella giacca. L'amico si era presentato con i capelli legati in un codino basso - ormai gli arrivavano alle spalle - e vestito di nero, uno dei suoi soliti maglioni a tinta unita e rigorosamente scuro che adorava indossare che si intravedeva sotto la giacca. « Che ci fai qui? ». Il loro programma era incontrarsi tra un'ora circa a casa di lui per finire i compiti dell'indomani e recuperare una serie su Netflix, che Mira lo avesse implorato di portarle un ombrello? Quella era un'ipotesi che decise di appoggiare, dato che ne teneva ben due in mano e, al contrario suo, non era zuppo da capo a piedi. « Tua madre è preoccupatissima. », Altayr sorrise sotto i baffi, tipico di Mira, « Come ti è venuto in mente di uscire senza ombrello e vestita così? Dai, ti riaccompagno a casa. ». « Aspetta, volevo andare al negozio di musica per - ».
    « Altayr? », una voce sconosciuta la chiamò e la ragazza si girò lentamente, non capendo chi fosse colui che l'aveva chiamata. Era certa di non conoscerlo, ma sembrava avere più o meno la sua stessa età: si trattava di un ragazzo molto alto e dal fisico asciutto, capelli corti di un particolare grigio scuro e scarmigliati – forse per la pioggia – e vividi occhi verdi chiaro dal taglio felino che sembravano volerla trafiggere, tanto era l'astio che celavano. Altayr mantenne lo sguardo fisso su di lui senza cedere, ma l'aura che lo sconosciuto emanava non le piaceva per nulla. Lo sentiva affine, ma in un certo senso ostile. « Ci conosciamo? » fece lei dopo qualche secondo di silenzio di troppo che il ragazzo non si decise a riempire. Kevin se ne stava silenzioso al suo fianco, conscio che Altayr poteva benissimo gestire la situazione da sola, ma lo aveva sentito irrigidirsi. « No, ma riconoscerei un'aquila a chilometri di distanza. Siete tutte uguali. ». Altayr alzò un sopracciglio, non capendo dove il giovane volesse andare a parare: apparentemente la sua parte animale non gli andava troppo a genio, ma non capiva il rivolgersi in quel modo ad una sconosciuta. « Farò finta di prenderla come un complimento, nel senso che noi aquile siamo tutte favolose e la faremo finita qui. », soffiò di rimando lei, senza abbassare lo sguardo, e neanche il giovane sembrò voler indietreggiare di un solo passo. Quelle iridi chiari erano strette e la studiavano da capo a piedi e sentì le scapole prudere nel momento in cui il ragazzo aggrottò le sopracciglia più di quanto non avesse già fatto, mostrando un sorrisetto che non le piacque per nulla. Allora era un volatile anche lui. Ora tutto quadrava, all'incirca, perché ancora non le era andato giù il tono che aveva utilizzato per rivolgerle la parola. Se l'intento del giovane era finire nella sua lista di persone da evitare e guardare in cagnesco ogni volta che lo incrociava per strada, beh, complimenti, ci era riuscito. « Izar, la conosci? » una tizia interruppe l'evidente tensione e si avvicinò ad Izar, dal quale non ricevette nessuna risposta. Izar, costellazione di Boote. Altayr sogghignò, portando il peso del corpo solo su una gamba, stavolta più rilassata, perché ritrovarsi davanti un altro mutaforma uccello con il nome di una stella le faceva quasi ridere. « E così sei una stellina anche tu » , esclamò, dando una gomitata a Kevin per attirare la sua attenzione e passarle l'ombrello. Non voleva rimanere lì un momento di più: discutere con ragazzi cocciuti e pieni di pregiudizi era l'abitudine per Altayr, e per quel giorno aveva già dato. Non aveva granché voglia di rispondere a tono a nessuno, in quel momento. « Non so se sei familiare con stelle e compagnia, ma Altair è leggermente più brillante di Izar. Dodicesima stella più luminosa del cielo, se vogliamo essere precisi », disse, passandosi di nuovo una mano tra i capelli per toglierseli dal viso, il tutto accompagnato dal sorrisetto sghembo che era ormai diventato il suo marchio di fabbrica. Posò un attimo lo sguardo a terra per poi rialzarlo con convinzione, dirigendo ad Izar un'occhiata che parlava da sé e non lasciava spazio ad altre parole. La conversazione era finita lì. Lo squadrò da capo a piedi, perché, a quanto pareva, era ora di stabilire chi fosse sul gradino più alto, in modo che non le avrebbe dato più alcun fastidio in futuro. « Ergo, stammi alla larga. ». Aprì l'ombrello in modo seccato, buttandosi sotto la pioggia e rallentando il passo fino a che non vide Kevin seguirla, per poi dirigersi insieme verso il famigerato negozio di musica.
    « Mi pare di averlo già visto in giro, sai? » le fece Kevin, ficcandosi la mano libera in tasca e guardandosi di nuovo indietro. Di rimando, Altayr fece spallucce.
    « Non mi interessa » disse lei in un sospiro, alzandosi il collo della giacca tentando di evitare l'inevitabile: il giorno dopo la aspettava una giornata a letto, se lo sentiva.

    • • • •

    Izar non la notò- o almeno sperava non lo avesse fatto -, e neanche Kevin, che invece lei, nascosta dall'ombra di un grosso albero in un angolo del cortile, vide appoggiarsi alla finestra e chiacchierare con un ragazzo che era spesso con lui durante le ore di scuola, ma le sfuggiva il nome. Si sedette dall'altra parte del tronco, dando le spalle all'edificio, e si sciolse la cravatta – che già prima era annodata alla bell'e meglio, adesso cominciava a darle fastidio. Cominciò a sistemarsela pigramente, senza neanche guardare verso il basso e con la testa tra le nuvole, e al contempo il cuore le martellava in petto senza darle un attimo di pace. La camicia ancora copriva il marchio, e non era intenzionata a scoprire l'avambraccio almeno fino a fine giornata. Kevin era la sua anima gemella, avrebbe dovuto fare pace col suo cervello e accettarlo, senza se e senza ma. A volte li avevano anche scambiati per una coppia e loro ci avevano sempre riso su, ma ora che quello che loro consideravano uno scherzo era destinato a diventare realtà. E lei era terrorizzata alla sola idea. Aveva paura di quei sentimenti, perché non erano stabili e forti, tutt'altro: era piena di dubbi ed insicurezze e il fatto che fossero destinati a stare insieme per l'eternità, che fossero fatti l'uno per l'altro, la mandava ancora più in confusione. La comparsa del marchio la stava costringendo a fare i conti con le sue emozioni, e più le analizzava e cercava di capire più era convinta che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. L'unica cosa che le era chiara era che lei era terrorizzata dai suoi sentimenti – così fragili ed incerti – e Kevin sembrava essere innamorato di lei. Per davvero. Nessuna perplessità, nessun tentennamento.

    L'ultima cosa che voleva era spezzargli il cuore.
    So can we close the space between us now? It's the distance we don't need

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    Edited by altäir - 11/9/2020, 00:38
     
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    abel cyril gytrash
    Doveva ammettere che mettersi con Raphael mentre era innamorato di un altro non era stata l'idea più brillante che avesse mai avuto, perché il cosiddetto "chiodo schiaccia chiodo" non stava funzionando granché bene, anzi: passavano la maggior parte del tempo assieme, come avevano sempre fatto fin da bambini, e di conseguenza non riusciva a stargli lontano. E, quindi, riuscire a farsi passare quella dannata cotta - che poi, cotta era riduttivo: era bello che andato, per Cain - era ormai impossibile, sarebbe stato più semplice rinunciarci e basta. Ma Abel sapeva che non poteva permetterselo: quei sentimenti lo stavano distruggendo, Cain ovviamente non lo ricambiava e non voleva rovinare la loro amicizia. Già, e aveva pensato di fidanzarsi col tizio più potente tra i Black Dogs che, a differenza di Cain, di affetto ne dimostrava ben poco e li teneva d'occhio di continuo, per paura che il rosso potesse rubargli il ragazzo. Davvero un colpo di genio.
    « Abel, mettimi a posto questo. ». La voce del capitano lo fece tornare coi piedi per terra, e l'albino tese un braccio verso di lui per afferrare una pila di fogli da sistemare nei cassetti della scrivania di Raphael, che al momento era indaffarato a sistemare dei documenti col suo aiuto. Sembravano report di vecchie missioni, e notò come tutte avessero un denominatore comune: la notte di Halloween. Sospirò, rendendosi conto che non mancava molto in fin dei conti: la notte tra il 31 ottobre e l'1 novembre gli spiriti scappavano dal mondo dei morti e causavano problemi in quello dei vivi, e i Black Dogs dovevano impedire che ciò accadesse. Si trattava di incarichi pericolosi dato che i demoni erano più forti ed aggressivi che mai, dunque erano gli Alpha ad occuparsene, combattenti esperti che sapevano come gestire la situazione al meglio. Un'altra missione di Halloween senza Cain, che se ne stava ancora relegato nei Beta da tempo immemore ormai, senza riuscire ad avanzare di rango: colpa del suo temperamento iracondo, Abel ormai ci aveva fatto il callo, ma i loro superiori, a parte qualche eccezione, a causa di ciò non lo vedevano molto di buon occhio. Abel si era sempre occupato di smorzare questo lato del carattere del fratello, così impulsivo ed aggressivo, in contrasto con la sua personalità cinica e riflessiva; tuttavia, da quando l'albino era riuscito ad entrare negli Alpha e l'altro era rimasto indietro era sempre più complicato tenerlo d'occhio per evitare che si cacciasse nei guai. Tuttavia, durante le pause e quando calava il sole Abel riusciva a sgattaiolare nella sua stanza senza dare nell'occhio per passare un po' di tempo insieme come ai vecchi tempi - erano sempre stati compagni di stanza - o il contrario, con Cain che rimaneva a dormire da lui. A prescindere dai sentimenti che provava nei suoi confronti, non sarebbe mai riuscito a rinunciare a lui: erano cresciuti insieme, erano entrati nella sede dei Black Dogs tenendosi per mano e avevano affrontato ogni situazione fianco a fianco. Solo immaginare una vita senza Cain gli faceva mancare l'aria.
    « Abel? ». Si sentì chiamare, e in uno gesto scattoso aprì il cassetto della scrivania del compagno per metterci i documenti che aveva ancora in mano. « Non distrarti. » gli fece Raphael, e Abel annuì piano, come se nulla fosse successo. Doveva stare più attento in presenza del compagno: Raphael era un tipo abbastanza geloso, soprattutto di Cain visto il legame che univa i due amici e il pessimo rapporto che invece aveva il rosso col capitano. In fondo, lui in primis doveva tentare di sopprimere ogni sentimento di natura romantica nei confronti del fratello, e, magari, proiettare quelle emozioni su Raphael. Un tempo pensava di amarlo: i primi mesi di frequentazioni erano passati lisci come l'olio, e seppure Abel gli avesse dato corda solo per prendere la palla al balzo aveva scoperto in lui un partner quieto ma affettuoso. Pensava davvero di poter dimenticare Cain con Raphael al suo fianco, ma poi qualcosa era andato storto. Non avrebbe saputo dire con precisione cosa, solo che ogni volta, per quanto tentasse di allontanarsi, tornava sempre lì, tra le braccia di suo fratello. Già, fratello. Agli occhi di Cain, Abel sarebbe stato sempre suo fratello, mentre quest'ultimo non faceva altro che guardarlo di nascosto mentre sorrideva perché non riusciva a sostenere il suo sguardo troppo a lungo. Che stupido. « Quanti ne mancano ancora? » chiese Abel ad una certa, mentre impilava altri fogli sopra il tavolo dopo avervi posto il timbro della partizione dei Black Dogs di Lancaster. « Pochi. Come mai? ». Il ragazzo, rispondendogli, gli fece vedere i pochi documenti che aveva in mano per fargli capire che dovevano sistemare solo quelli, ed Abel annuì alla loro vista. « Ho sonno. » fece, stringendosi nelle spalle e coprendosi le mani con le lunghe maniche del maglione che indossava, inserendo i documenti da lui ordinati in una cartella apposita. Sentì Raphael sospirare, e in quel momento sollevò lo sguardo su di lui. « Non hai dormito neanche stanotte? » domandò, ed Abel si morse l'interno della guancia. Erano settimane che andava avanti a sonnellini diurni e nottate passate perlopiù sveglio, trovando difficile alzarsi dal letto una volta giunto il mattino ed ingranare durante la giornata. « Poco. ». Raphael gli passò i fogli che aveva in mano, accorciando la distanza tra la libreria e la scrivania con passi lenti e tenendo lo sguardo fisso su Abel, che a sua volta non capiva come mai lo guardasse come se fosse un cucciolo indifeso. « Vuoi passare la notte da me? ». Quella domanda arrivò come un fulmine a ciel sereno, e l'albino riuscì a nascondere la sorpresa dietro un'espressione composta, ma in verità lo stomaco gli fece una capriola. « No, grazie. » rispose, infilando nel cassetto i fogli che aveva prima Raphael in mano e chiudendolo con un movimento deciso che avrebbe potuto far trapelare la sua agitazione. « Sto bene anche da solo, sarà la missione di Halloween che mi mette agitazione. » fece con quanta più tranquillità e nonchalance possibile, e Raphael non insistette oltre: gliene fu grato, perché non aveva proprio voglia di muoversi dalla sua camera per finire in quella di Raphael. Voleva starsene un po' da solo e, in caso contrario, purtroppo, era convinto che la prima persona che avrebbe chiamato non sarebbe stato lui.

    Una volta fuori dallo studio, Raphael volle accompagnarlo fino alla sua stanza ed Abel glielo lasciò fare. Il tragitto fu riempito da chiacchiere informali a proposito delle prossime missioni prima di quella di Halloween, e venne così a scoprire che anche lui era in lista per almeno un paio di queste. Probabilmente Cain sarebbe andato su tutte le furie, dato che ai Beta assegnavano missioni piuttosto insignificanti: quelle più sostanziose non erano un'habitué per le altre classi come lo erano per gli Alpha, e sapeva quanto Cain bramasse scendere sul campo di battaglia ogni volta che ne aveva l'occasione. Anche ad Abel, a dirla tutta, non dispiaceva combattere in forma di lupo - il suo corpo umano era mingherlino e abbastanza deboluccio -, quando diventava una bestia possente e scattante, ed ascendere alla classe Alpha gli aveva dato l'opportunità di partecipare a pericolose missioni varie volte. Peccato non ci fosse Cain a guardargli le spalle, come ai bei vecchi tempi.
    Arrivati davanti alla porta della stanza dell'albino, i due si salutarono velocemente: Raphael gli prese la mano, posando un fugace bacio sul dorso di essa, e tornò sui suoi passi per fare rapporto a Grim, dirigendosi dunque verso l'ufficio del capo dei Black Dogs. Abel lo guardò allontanarsi fino a quando la sua figura scura non scomparve dietro una curva del corridoio e tirò fuori la chiave, cercando di infilarla nella serratura ad occhi chiusi, con la fronte appoggiata al legno della porta, esausto non solo fisicamente - era da quella mattina stessa che smistava fogli che sembravano tutti uguali, e ora il sole stava tramontando - ma sentiva pure la testa scoppiare. Sperava di riuscire a fare almeno un sonnellino fino all'ora di cena. Dopo un paio di tentativi riuscì ad aprire la porta e se la chiuse alle spalle. buttandosi sul letto a peso morto, senza neanche preoccuparsi di togliersi i vestiti o chiudere la porta a chiave. Prima che la sonnolenza gli annebbiasse gli occhi, in quel momento si diede dello stupido. Era proprio vero, che non pensava ad altro che a Cain. Anche quando si trovava con Raphael, o si parlava di cose tipo, appunto, le missioni. Ogni cosa gli faceva tornare in mente lui, e non in senso platonico. Al risveglio, avrebbe voluto pensare solamente alla cena ma sapeva che, sicuramente, il suo primo pensiero appena sveglio sarebbe stato rivolto a quell'imbecille di suo fratello.

    Alla fine Abel riuscì a prendere sonno, ma il suo riposo fu interrotto bruscamente dalla porta della sua stanza che si aprì con un tonfo: l'labino scattò a sedere sul letto, sensi da animali dormienti ma comunque pronto a difendersi, per poi, un attimo dopo, ritrovarsi Cain davanti alla porta, tentando di chiuderla col chiavistello. « Che stai facendo? » esclamò Abel, piuttosto confuso, dato che il fratello non sembrava essere passato di lì per accompagnarlo in mensa. « Mi nascondo da quel pazzo di Grim. ». Abel alzò un sopracciglio in risposta: che aveva combinato stavolta? « Ha scoperto che mi sono infilato in una missione degli Alpha qualche giorno fa al posto di Silas. ». L'albino smise di stropicciarsi l'occhio sinistro, quello attraversato dalla cicatrice, e aggrottò le sopracciglia in direzione di Cain. « Di nuovo, Cain? Sul serio? », « Speravo ci fossi anche tu, tutto qua! ». Abel si passò una mano tra i capelli, come se non avesse voluto credere alle parole del fratello, ma sapeva fin troppo bene che si trattava della verità: non era la prima volta che Cain modificasse gli incarichi degli Alpha in modo da ficcarsi nelle missioni usando il nome di qualcun altro nella speranza di beccare Abel, ma questa volta gli era andata male. « La settimana scorsa, quindi. ». Il rosso annuì, avvicinandosi al suo letto e sedendosi al suo fianco senza fare complimenti. « Grim saprà subito che sei venuto qui. », lo disse seriamente, ma alla fine della frase gli sfuggì una risatina. Erano inseparabili, era ovvio che Cain fosse corso da lui al riparo, e Grim lo sapeva bene. « E' tutt'oggi che non ci vediamo, volevo anche passare a salutarti. ». Mentre lo diceva, si sdraiò su di lui, appoggiando la testa sulle cosce dell'albino e lo stomaco di quest'ultimo fece una capriola - stavolta in positivo. « Ci saremmo visti in mensa. ». Abel scosse la testa, puntando le mani poco dietro la sua schiena per sostenere il busto e stare più comodo, mentre l'altro gli faceva segno che non gli importava. Diamine, perché proprio lui gli doveva mandare in cortocircuito il cervello? Proprio lui, tra tutti? Proprio lui, che mai avrebbe ricambiato ciò che provava. « Ah, ti ho anche riportato le cuffiette che mi avevi prestato qualche giorno fa. », « Un mese fa. », « Sì, vabbè. ». Il rosso si tirò su di scatto, tirando fuori dalla tasca delle cuffiette intrecciate tra di loro in un gomitolo stretto, ed Abel lo guardò senza speranze. « Grazie. » fece, con tono volutamente sarcastico, e l'altro gliele mise in mano come se nulla fosse. L'albino sospirò piano, tentando di capire da quale estremità poteva riuscire a slegarle nel minor tempo possibile, ma la voce di Cain lo interruppe. « Hai delle occhiaie pazzesche. Da quanto non dormi? ». Abel fece il grande sbaglio di alzare lo sguardo su di lui, perché il rosso gli stava a pochi centimetri dal viso e lui si sentì avvampare. « Qualche giorno. » biascicò, e tornò a concentrarsi sulle cuffiette, unica scusa che aveva per non guardarlo. Il colpo di grazie arrivò quando sentì il palmo caldo del fratello scostargli la frangia e posarsi sulla fronte, ed Abel rimase immobile, sicuro che sarebbe collassato da un momento all'altro. « Prenditi cura di te anche quando non ci sono. Altrimenti verrò a dormire da te ogni notte. ». Cain abbassò la testa ed entrò a forza nel suo campo visivo e l'albino, solo immaginandosi a dormire nello stesso letto dell'altro gli esplose il cuore: non che non fosse abituato - dormivano quasi di continuo insieme e fin da piccoli avevano diviso la stessa camera, se non lo stesso letto -, ma ormai anche le cose che facevano sempre insieme gli facevano venire le farfalle nello stomaco. E aggiungendo la propensione di Cain ad essere espansivo, non riusciva ad avere un momento di pace. « Non ce n'è bisogno. » sussurrò lui, mettendogli una mano sulla guancia e costringendolo ad allontanarsi. Aveva notato come il suo stesso sguardo si abbassasse senza volerlo sulle labbra di Cain, e questo era decisamente un brutto segno. Non voleva svalvolare ogni volta che lo toccava, non voleva arrossire ogni volta che lo abbracciava, non voleva balbettare ogni santissima volta che si avvicinava pericolosamente al suo viso. Perché era così difficile dimenticarlo una volta per tutte e tornare ad essere dei semplici amici per la pelle, ognuno con la propria vita sentimentale, uniti solamente da un forte sentimento platonico? Tanto, sicuramente, non erano neanche anime gemelle.
    « Merda, Grim è qui vicino. Ci vediamo per cena » con queste parole, Cain si alzò di scatto dal letto ed aprì la finestra che dava sul giardino, senza che Abel potesse fermarlo. In effetti, ora che ci faceva caso, anche Abel riuscì ad avvertire l'odore acre del capo a poca distanza da lui. « Ti copro io. » gli sorrise, e il rosso gli lanciò un bacio in risposta, che lui fece finta di schivare. Il fratello si lanciò nel vuoto ed Abel lo sentì atterrare in un tonfo secco ma poco rumoroso, e qualche istante dopo si alzò lentamente per andare a chiudere la finestra per tornare a sedersi subito dopo e rannicchiarsi in un angolo del letto. Cain riusciva ad illuminare anche le giornate più buie, ma la sua assenza si faceva sentire: ora era di nuovo solo, come avrebbe voluto rimanere per concedersi del meritato riposo, ma gli mancava. Terribilmente. Strinse le ginocchia al petto, appoggiando il viso sulle ginocchia, per poi tirarlo su leggermente per scoprirsi l'avambraccio: sulla pelle chiarissima si intravedeva un cerchio dalla quale partiva una piccolissima linea verso la parte più esterna. Non aveva una costellazione, ma aveva i segni di un marchio: non sapeva cosa fosse, se in futuro sarebbero apparse altre stelle o no. Uno come lui, a quanto pareva, un'anima gemella non ce l'aveva. E pensare che non fosse Cain un grande vuoto si apriva all'alteza del suo stomaco, inumidendogli appena gli occhi. Non riusciva a trovare un solo buon motivo per abbandonare ogni tentativo di cercare di far sparire tutto l'amore che provava verso di lui: non erano anime gemelle, lui aveva di continuo ragazzi e ragazze con cui impegnarsi e quindi non pensava a lui sotto quell'aspetto e avrebbe rovinato un'amicizia. Eppure non riusciva a smettere di pensare a lui.

    Grim bussò alla porta.
    Now all I do is sit And count the miles from you to me

    ☆ code by ruru
     
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2 replies since 25/5/2020, 15:15   121 views
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